Vincenzo Cutolo, PAGINE SPARSE E CIVILI
(Edizioni Oedipus, 2017)
Introduzione
Queste Pagine sparse e civili di Vincenzo Cutolo possono essere lette come una storia esemplare. Non documentano solo il percorso – anzi i percorsi – di un uomo di scuola, politica, teatro, cultura, come recita il sottotitolo, ma aiutano a comprendere una vicenda molto più ampia, che ha a che fare con la ‘posizione’ dell’intellettuale, con il suo ruolo, il suo destino, nella sfera pubblica.
In questo senso, dirò subito, anticipando le conclusioni, che il libro racconta per certi versi la storia di un’occasione mancata. Una delle tante, e nemmeno l’ultima, che contraddistinguono la storia del Mezzogiorno d’Italia.
Ecco perché è un libro esemplare e insieme dolente. E doloroso per chi legga. Ma non il libro di uno sconfitto.
Uno dei tratti distintivi delle élites meridionali, anche di quelle intellettuali, è un’accidia nutrita di cinismo e dissimulata dietro un sedicente realismo politico declinato sempre al ribasso. Quell’indifferenza che Leopardi, nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, bolla come la «maggior peste de’ costumi, de’ caratteri, e della morale». Un cinismo «di parole e d’azioni» che presuppone un’accettazione rassegnata, se non compiaciuta, dell’esistente; e che risolve la storia fatta dagli uomini – che dunque dovrebbero esserne i soli responsabili – in natura. In una natura nella quale tutto accade secondo una legge di necessità che sarebbe vano e grottesco contrastare.
Meglio dunque assecondarla, con eleganza, sprezzatura, magari ridendone. E ridendo soprattutto di chi coltivi l’ambizione folle di sovvertire l’ordo rerum, di cambiare cose che invece durano eterne. Agli occhi di Tancredi, della progenie dei Gattopardi, la pretesa del funzionario sabaudo Chevalley di Monterzuolo di ripristinare la legalità in Sicilia a mezzo dei carabinieri è solo una pia illusione, da chiosare con la condiscendenza che si riserva a un cretino: «Senza dubbio, Chevalley, senza dubbio». Un «senza dubbio» da intendersi, ovviamente, in senso antifrastico: come sintomo evidente di quel «machiavellismo scettico» – sono parole di Edoardo Sanguineti – che intride il sistema di valori de Il Gattopardo, nel quale finanche il padre gesuita si chiama Pirrone (che è il nome, appunto, di un filosofo scettico antico). Se i carabinieri falliranno dove e come è fallita, prima di loro, l’inetta polizia borbonica, perché allora darsi pena? Perché anche soltanto immaginare di rompere la tranquilla fissità che accomuna i Gattopardi agli dei e alle cose, alla materia inerte?
Aspettare il nulla, come ‘fanno’ da sempre i Gattopardi, significa negare il tempo e con esso la storia. Significa pensarsi, non solo rappresentarsi, come pietre, indifferenti allo scorrere del tempo. In questo, Lampedusa ripete il Pirandello de I vecchi e i giovani, che scrive del «vuoto di un tempo senza vicende » e di una «profonda sconfidenza della sorte». Lampedusa ripete Pirandello e prefigura l’ontologia di cui scriverà Sciascia: ontologia, ancora una volta, come negazione della storia e della parte che in essa gli uomini svolgono, in quanto artefici del mondo civile. O come piano inclinato sul quale scorrere, precipitare, senza che nessuno possa farci niente. Se non certificare la «continua sconfitta della ragione» (ancora Sciascia), votata allo scacco con la stessa necessità ontologica della caduta di un grave.
Se l’ontologia si è sedimentata come senso comune, finendo per orientare l’azione e l’inazione pubbliche, ci sono stati tuttavia uomini al Sud – non necessariamente del Sud – né sedati né seduti, mai pacificati, capaci anzi di risalire lungo il piano inclinato e di farsi carico di una rivolta etica. Uomini anche di scuola, seppure a modo loro: convinti che l’insegnamento, un certo tipo di insegnamento alieno dal pedagogismo, possa rovesciare l’ordine naturale delle cose, in primo luogo rivelandone la convenzionalità, l’artificialità, specie quando quest’ordine implica gerarchia, sopraffazione, privilegio. Ho in mente la rivolta insegnata e messa in atto da Danilo Dolci.
Dolci non fu solo – tra l’altro – corrispondente di Cristina Campo, scrittrice tra le più grandi del Novecento e traduttrice di Simone Weil, fu anche accostato a Weil, della cui storia mi preme ricordare, qui, soltanto un episodio. Nel 1936 Simone riscrive l’Antigone di Sofocle per gli operai delle fonderie di Rosières. Lo fa perché crede nel potenziale salvifico della bellezza. Salvifico e liberatorio. Non è un caso che la sola potenza capace di spezzare i ceppi che avvincono il prigioniero nella caverna del libro VII della Repubblica di Platone sia, per Weil, nient’altro che la bellezza. Incontrare la bellezza, scontrarsi con la bellezza, sotto forma di un conflitto tragico inconciliabile, non è dunque una questione estetica ma etica. Anzi: politica. Una questione che attiene al vivere civile. Alla possibilità di essere liberi, affrancati dalla pesanteur che impone di sognare il sogno di un altro. Commuove, in Simone, questa fiducia nella traditio di un testo in origine abissalmente ambiguo quale quello sofocleo e nell’efficacia pratica, trasformativa, della sua ricezione. Che poi questa fiducia nella bellezza come potenza di emancipazione susciti le ironie dei cinici o il riso delle servette di Tracia – che asfissiano scuola e università – è del tutto irrilevante: Weil coglie il senso intimo della passione, dell’eros, che dovrebbe costituire il movente di ogni trasmissione di un sapere veramente liberatorio. Sempre che questa trasmissione non si riduca a officio cui ottemperare con indifferenza burocratica.
Se ho ritenuto di convocare attorno a queste Pagine sparse e civili le figure di Weil, Dolci, e degli scrittori che diagnosticarono senza sconti la maggior peste dell’etica pubblica italiana, è perché esse mi sembrano l’esergo migliore al libro. Al sistema di valori di cui il libro è espressione. Sono il migliore degli eserghi che mi riesca di trovare perché in fondo contraddicono il titolo: le pagine che seguono risultano tutt’altro che sparse. Una volta raccolti, e predisposti a uno sguardo d’insieme, gli scritti di Cutolo trascendono le occasioni che li hanno dettati. Si sciolgono dalla contingenza e raccontano, come scrivevo all’inizio, una storia, dotata di una sua coerenza interna, che peraltro non è mai solo la storia, la vicenda professionale, politica, artistica, di Cutolo, ma anche di altri che in essa possano riconoscersi. Di qui, il suo carattere di exemplum e di speculum: ma secondo un’accezione non narcisistica.
Ciò che rende coerente questa storia è la ricerca ostinata della bellezza e dell’emancipazione, anche in contesti refrattari e difficili: in particolare la Torre Annunziata di Fortapàsc, dove Cutolo ha ‘scritto’ pagine – pagine di vita civile – che fanno onore alla scuola, a un’idea di scuola come avamposto di libertà e legalità. Tutto questo, molto prima della retorica delle buone pratiche e soprattutto con un senso del concreto che difetta alla fuffa pedagogica imperante. Per Cutolo, un giornale scolastico (ma di qualità altissima) e un teatro, inteso prima di tutto come spazio pubblico fisico, equivalgono a quella che, per Weil, è la riscrittura del mito di Antigone a uso degli operai: veicoli di emancipazione attraverso una bellezza accessibile a tutti.
C’è dunque, riconoscibilissima nelle sua ascendenze illuministiche, l’utopia socialista in queste pagine. L’utopia di quella rimozione delle disuguaglianze che trova un riscontro puntuale in uno degli articoli più potenti della nostra Costituzione repubblicana. Più potenti anche perché scritti meglio, come ha evidenziato Stefano Rodotà ammirandone l’eleganza del dettato. E, da socialista, Cutolo non ha mai smesso di pensare che le uniche élites necessarie a una democrazia sono quelle provenienti dal basso, selezionate a dispetto
della gerarchia sociale, contro il privilegio dei feudi e delle caste. Ecco perché queste pagine tutt’altro che sparse sono anche civili: le pervade un pathos autentico per l’uguaglianza come presupposto della cittadinanza democratica.
Una passione che ha da tempo abbandonato la sinistra, il cui realismo al ribasso accetta come ineluttabile – come oggettiva, ontologica, appunto – la deriva censitaria della società e per molti versi addirittura la promuove.
Socialista e illuminista, socialista dunque illuminista, Cutolo crede che scuola, teatro e cultura siano il viatico migliore per la rimozione delle disuguaglianze e che essi siano chiamati a svolgere un ruolo eminentemente politico. Non c’è pagina di questo libro che non esprima tale convinzione.
Scuola, teatro e cultura sono politica, nel senso più alto del termine, comprensivo della cura, della presa in carico dell’altro, del rispondere di e del rispondere a. E la politica è il demone che abita Cutolo, qualunque sia l’oggetto dei suoi scritti, dai Settanta a oggi. Un demone che gli detta le pagine più sofferte, irrequiete, indignate (come nel caso della disamina del grillismo).
Politica significa anche, se non soprattutto, rapporto tra l’individuo e la comunità. E qui la storia esemplare che Cutolo personifica, prima ancora che raccontare, diventa la storia di molti, fatta di risorse inespresse e di occasioni sprecate. Da queste pagine non si evincono solo i molti successi, professionali e artistici, di Cutolo. Si ricava anche il rifiuto che la comunità ha opposto a uomini come lui, rubricati troppo presto come inservibili. Come semi estranei, per dirla col Platone più amaro. Ma a Sarno, per esempio, Cutolo non è stato affatto un seme estraneo. Perseguita con ostinazione talvolta anche chisciottesca (ma nell’ostinato c’è sempre un po’ di Chisciotte), la sua idea di emancipazione attraverso la bellezza ha dato frutti importanti, bei fiori, per citare un suo titolo. Penso a tutta una leva di attori e musicisti. E alla decisione di mettere in scena drammi come La morte di Danton di Büchner o Andorra di Frisch, persino impensabili in un contesto dominato dalla retorica del facile, dall’eterna ripetizione dell’identico (un repertorio dialettale mummificato), da un’idea di teatro digestivo, postprandiale.
E allora viene da pensare che i mediocri blocchi di potere che usurpano politica e cultura esautorino i Cutolo proprio perché li sanno fecondi, produttivi, portatori di una differenza evidente. Si potano i rami verdi perché non turbino la sterilità dei secchi. Anzi: perché non ne rivelino la secchezza. La crisi delle nostre comunità, l’imbarbarimento delle forme di convivenza, l’indecenza delle proposte culturali elaborate dalle politiche pubbliche, la diseducazione teatrale, la peste del torpore civile, sono riconducibili in ampia misura alla pochezza di queste oligarchie, legittimate da una mediocrità rassicurante e contagiosa. Se la Sarno di oggi si presenta deprivata di luoghi di produzione e fruizione culturale, è perché qualcuno, a suo tempo, ha reputato conveniente che le stagioni delle quali si racconta in queste pagine sparse finissero.
Che quegli spazi di democrazia si chiudessero. E quasi se ne dannasse la memoria, perché quel pubblico si disperdesse. È la sorte toccata a un uomo necessario come Franco Forte, che del libro è l’editore naturale in quanto amico e sodale di Cutolo dai tempi della formazione universitaria. Nei confronti di Franco, il debito mio e della mia generazione, nell’Agro e non solo, è fortissimo e non bisognerebbe mai stancarsi di riconoscerlo. Ed è altrettanto forte verso Vincenzo Cutolo. Entrambi hanno preteso di sprovincializzare i nostri ‘consumi’, di provocarci alla sperimentazione di percorsi inusitati. Pagine sparse e civili testimonia anche questa sfida al senso comune e indica una strada che qualcun altro, prima o poi, potrebbe arrischiarsi a percorrere.
Gennaro Carillo
(Università Suor Orsola Benincasa, Napoli)
La post-fazione del libro
Ho scritto tanto, nella mia vita. Di politica, teatro, letteratura, educazione, costume, storia.
Pagine apparse un po’ ovunque: su giornali e periodici nazionali e locali, su pubblicazioni scolastiche, su organi dell’emigrazione italiana.
Ricercandole, mi sono accorto che innumerevoli testimonianze scritte (non solo mie, ma anche di tante persone a me note che hanno lasciato traccia di sé in quest’ultimo mezzo secolo) non esistono più o perché distrutte, o perché non conservate, o perché andate perdute.
Ho quindi deciso di raccogliere insieme, in volume unico, tutti i miei articoli, recensioni, commenti, interventi da me ritrovati.
Borges diceva che, per lui, il paradiso è “un’immensa biblioteca”.
Voleva dire che le donne e gli uomini, tramite le loro opere pubblicate nei secoli, hanno reso infinita ed eterna la vita umana, consentendole la “immensa luce” che vince le tenebre della morte.
Noi viviamo – ha scritto Pirandello – finché gli altri avranno memoria della nostra vita.
Se avremo lasciato solo tracce di un’esistenza futile o banale, ricorderà qualcosa – di ciascuno di noi – solo la generazione dei figli, degli amici, dei nipoti.
Lasciare, invece, dietro di sé i segni dl un senso più ampiamente umano dato alla propria vita, può forse offrire maggiore tempo al ricordo.
Soprattutto quando tali segni (nel mio caso: pagine che coprono l’intero arco di circa mezzo secolo) testimoniano passione e impegno. E sono anche strumento, forse utile, per chi intende indagare su quasi cinquant’anni di storia, non solo di Sarno e della Campania.
Vincenzo Cutolo
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