Dossier
“ PROVE TECNICHE DI GOLPE”
7-8-9 febbraio 2009
Io sono per la democrazia e tu?
7 febbraio 2009
L’associazione Libertà e Giustizia, costituita nel 2002 a Milano, lancia una raccolta di
firme per “rompere il silenzio” sugli ormai quotidiani attacchi alla Costituzione e alla legalità
Appello di “Libertà e Giustizia”:
“La democrazia è in bilico: salviamola”
ROMA – “La democrazia è in bilico”: l’allarme arriva da “Libertà e Giustizia”, l’associazione nata nel 2002 a Milano per far fronte alla crescente insoddisfazione dei cittadini nei confronti della classe politica, cittadini che “non trovano gli strumenti culturali per unirsi e cambiarlo, per contare insieme, per far valere il loro impegno civile”. “Libertà e Giustizia” ha pubblicato su Repubblica un appello per la difesa della democrazia, dal titolo “Rompiamo il silenzio”. L’associazione invita chi intende aderire all’appello, che reca le firme di Gustavo Zagrebelsky, Gae Aulenti, Giovanni Bachelet, Sandra Bonsanti, Umberto Eco, Giunio Luzzatto, Claudio Magris, Simona Peverelli, Guido Rossi, Elisabetta Rubini e Salvatore Veca, a sottoscriverlo sul suo sito.
“Assistiamo a segni inequivocabili di disfacimento sociale: – si legge nel testo pubblicato su Repubblica – perdita di senso civico, corruzione pubblica e privata, disprezzo della legalità e dell’uguaglianza, impunità per i forti e costrizione per i deboli, libertà come privilegi e non come diritti”.
I promotori dell’appello denunciano “il decadimento etico e istituzionale” del Paese, rispetto al quale la crisi economica è un’aggravante. La democrazia rischia di diventare demagogia, “l’investitura da parte di monarchie o oligarche di partito si mette al posto dell’elezione”. Questo avviene in Italia, dove la selezione della classe politica è diventata “una cooptazione chiusa”, il Parlamento “è in via di esautoramento”, “la separazione dei poteri è gravemente minacciata”.
“Libertà e Giustizia” denuncia i conflitti d’interesse, le commistioni sempre più pericolose: il risultato è “un regime chiuso di oligarchie rapaci, che succhia dall’alto, impone disuguaglianza, vuole avere a che fare con clienti-consumatori ignari o imboniti”.
Che fare? La strada suggerita dai firmatari dell’appello è quella di “contrastare le proposte di stravolgimento della Costituzione, come il presidenzialismo e l’attrazione della giurisdizione nella sfera d’influenza dell’esecutivo”, e di “difendere la legalità contro il lassimo e la corruzione”. E infine, “promuovere la cultura politica, il pensiero critico, una rete di relazioni tra persone ugualmente interessate alla convivenza civile e all’attività politica, nel segno dei valori costituzionali”.
“E’ un dovere civile manifestare a difesa della Carta”
BERLUSCONI E LA SFIDA SULLA COSTITUZIONE
Oltre la misura
Dopo la giornata nera di uno dei più duri scontri istituzionali del dopoguerra repubblicano, avremmo auspicato il momento della ricucitura. Purtroppo il presidente del Consiglio ha scelto la strada opposta, e ha finito per parlare della nostra Costituzione come di un documento in parte ispirato da chi aveva l’Unione Sovietica come «modello». Un giudizio oltre ogni misura.
Le circostanze storiche che hanno dato vita alla Costituzione repubblicana sono note. E la nostra Carta costituzionale è ovviamente emendabile nelle sue parti che più sono esposte all’usura del tempo (come il Corriere ha sempre sostenuto). Ma non si può sottacere l’apprezzamento che le è riconosciuto in modo pressoché unanime. La speranza è che l’enormità imprudentemente formulata dal nostro premier non comprometta il tentativo di ricreare un clima meno tempestoso nei rapporti tra Palazzo Chigi e il Quirinale. Questi sono i giorni in cui ci si deve responsabilmente adoperare per sanare una grave frattura tra le istituzioni. Strapazzare la memoria della Costituzione otterrebbe il risultato contrario.
Il Corriere della Sera 8 febbraio 2009
LA SVOLTA BONAPARTISTA
EZIO MAURO da La Repubblica 7 febbraio 2009
UNA questione di vita e di morte, una tragedia familiare, un caso di amore e di disperazione tra genitori e figlia che cercava di sciogliersi nella legalità dopo un tormento di 17 anni, è stato trasformato ieri da Silvio Berlusconi in un conflitto istituzionale senza precedenti tra il governo e il Quirinale, con il Capo dello Stato che non ha firmato il decreto d’urgenza del governo sul caso Englaro, dopo aver inutilmente invitato il Premier a riflettere sulla sua incostituzionalità, e con Berlusconi che ha contestato le prerogative del Presidente della Repubblica, annunciando la volontà di governare a colpi di decreti legge senza il controllo del Quirinale. Pronto in caso contrario a “rivolgersi al popolo” per cambiare la Costituzione.
Il Presidente del Consiglio non era mai intervenuto in questi mesi nel dibattito morale, politico e culturale sollevato da Beppino Englaro con la scelta di chiedere la sospensione della nutrizione artificiale per sua figlia, ponendo fine ad un’esistenza vegetativa di 17 anni, giudicata irreversibile da 14. Ma ieri l’istinto populista ha consigliato al Premier di scegliere proprio il dramma pubblico di Eluana, giunto al culmine della sua valenza emotiva sollecitata dalla cornice di sacralità guerresca del Vaticano, per sfidare Napolitano su una questione di fondo: il perimetro e la profondità del potere del suo governo, che Berlusconi vuole sovraordinato ad ogni altro potere, libero da vincoli e controlli, dominus incontrastato del comando politico.
È uno scontro che segna un’epoca, perché chiude la prima fase di un quindicennio berlusconiano di poteri contrastati ma bilanciati e ne apre un’altra, che ha l’impronta risolutiva di una resa dei conti costituzionale, per arrivare a quella che Max Weber chiama l'”istituzionalizzazione del carisma” e alla rottura degli equilibri repubblicani: con la minaccia di una sorta di plebiscito popolare per forzare il sistema esistente, disegnare una Costituzione su misura del Premier, e far nascere infine un nuovo governo, come fonte e risultato di questa concezione tecnicamente bonapartista, sia pure all’italiana.
Il caso Eluana, dunque, nel momento più alto della discussione e della partecipazione del Paese, si è ridotto a pretesto e strumento di una partita politica e di potere. Berlusconi aveva infine ceduto alle pressioni del Vaticano e all’opportunità di dare alla sua destra senz’anima e senza tradizione un’identità cristiana totalmente disgiunta dalle biografie e dai valori, ma legata alla precettistica e alle politiche concrete della Chiesa: così ieri mattina ha annunciato al Consiglio dei ministri la volontà di varare un decreto legge di poche righe, per vanificare la sentenza definitiva della magistratura che accoglie la richiesta di Beppino Englaro, e per impedire la sospensione già avviata ad Udine dell’alimentazione e dell’idratazione per Eluana.
Il Presidente della Repubblica, che già aveva spiegato giovedì al governo l’insostenibilità costituzionale del decreto, ha deciso di assumersi su un caso così delicato una pubblica responsabilità, che non si presti ad equivoci davanti all’esecutivo, al Parlamento, alla pubblica opinione. Dando forma e sostanza all’istituto della “moral suasion”, ha scritto una lettera a Berlusconi in cui spiega le ragioni che rendono impossibile il decreto, se si guarda – come il Capo dello Stato deve guardare – soltanto alla Costituzione, ai suoi principi, ai criteri che stabilisce per la decretazione d’urgenza. C’è una legge sul fine-vita davanti al Parlamento, dice Napolitano nel messaggio, c’è la necessità di rispettare una pronuncia definitiva della magistratura, se non si vuole violare “il fondamentale principio della separazione e del reciproco rispetto” tra poteri dello Stato, c’è la norma costituzionale dell’uguaglianza tra i cittadini davanti alla legge, quella sulla libertà personale, quella sulla possibilità di rifiutare trattamenti sanitari. Ci sono poi i precedenti di altri inquilini del Quirinale – Pertini, Cossiga, Scalfaro – che non hanno firmato decreti-legge, e soprattutto c’è la funzione di “garanzia istituzionale” che la Costituzione assegna al Capo dello Stato. Da qui l’invito al governo di “evitare un contrasto, riflettendo sulle ragioni del no del Presidente.
Con ogni probabilità è stato questo richiamo al ruolo di garanzia del Quirinale, unito al gesto pubblico di rendere nullo il decreto del governo, rifiutandosi di emanarlo, che ha convinto Berlusconi a sfruttare l’occasione per aprire la contesa suprema sul potere al vertice dello Stato. In conferenza stampa il Premier ha spiegato la sua scelta sul caso Englaro con motivazioni morali (“Non mi voglio sentire responsabile di un’omissione di soccorso per una persona in pericolo di vita”) ma anche con giudizi medico-scientifici approssimativi (“Lo stato vegetativo potrebbe variare”), e con affermazioni incongrue e sorprendenti: “Eluana è una persona viva, che potrebbe anche avere un figlio”.
Ma il cuore del ragionamento berlusconiano è un altro: la lettera di Napolitano è impropria, perché il giudizio sulla necessità e urgenza di un decreto spetta per Costituzione al governo e non al Quirinale, mentre il giudizio di costituzionalità tocca al Parlamento. Non solo, ma il decreto d’urgenza è l’unico vero strumento di governo in un sistema costituzionale antiquato. E se il Capo dello Stato “decidesse di caricarsi della responsabilità di una vita”, non firmando il decreto, il governo si ribellerebbe invitando il Parlamento “a riunirsi ad horas” per approvare “in due o tre giorni” una legge stralcio che anticipi il testo in discussione al Senato, bloccando così l’esito della vicenda Englaro. Eluana, tuttavia, è già sullo sfondo, ridotta a corpo ideologico e a pretesto politico. Ciò che a Berlusconi interessa dire è che non si può governare il Paese senza la piena e libera potestà governativa sui decreti legge. “Si può arrivare ad una scrittura più chiara della Costituzione. Senza la possibilità di ricorrere a decreti legge, tornerei dal popolo a chiedere di cambiare la Costituzione e il governo”.
La sfida è esplicita, addirittura ostentata. Quirinale e Parlamento devono capire che il governo assumerà il potere legislativo attraverso i decreti legge, della cui ammissibilità sarà l’unico giudice, con le Camere chiamate ad una ratifica automatica di maggioranza e il Capo dello Stato costretto ad una firma cieca e meccanica. Berlusconi vuole decidere da solo, in un’aperta trasformazione costituzionale che realizza di fatto il presidenzialismo,
aggiungendo potestà legislativa all’esecutivo nella corsia privilegiata della necessità e dell’urgenza, criteri di cui il governo è insieme beneficiario e giudice unico, senza lasciar voce in capitolo al Capo dello Stato. Un Capo dello Stato minacciato pubblicamente dal Premier, se non firma il decreto per un deficit costituzionale, di “caricarsi della responsabilità di una vita”. Qualcosa che non era mai avvenuto nella storia della Repubblica, per i toni politici, per i modi istituzionali, per la sostanza costituzionale: e anche per la suggestione umana.
La risposta di Napolitano poteva essere una sola: con rammarico, il Presidente non firma, perché il decreto è incostituzionale. L’assunzione di responsabilità del Quirinale rende nullo il decreto, e costringe Berlusconi a imboccare la strada parlamentare, sia pure con le forme improprie annunciate ieri. Ma la lacerazione rimane, il progetto di salto costituzionale anche. È un progetto bonapartista, con il Premier che chiede di fatto pieni poteri in nome del legame emotivo e carismatico con la propria comunità politica, si pone come rappresentante diretto della nazione e pretende la subordinazione di ogni potere all’esecutivo. Avevamo avvertito da tempo che qui portavano le leggi ad personam, i “lodi” che pongono il Premier sopra la legge, la tentazione continua di sovraordinare l’eletto dal popolo agli altri poteri. Ieri, Napolitano ha saputo opporsi, in nome della Costituzione. La risposta del Premier è stata che il Capo dello Stato non potrà mai più opporsi, e la Costituzione cambierà.
Ecco perché la data di ieri apre una fase nuova nella vita del Paese, una Terza Repubblica basata su una nuova geografia del potere, una nuova legittimità costituzionale, un nuovo concetto di sovranità, trasferito dal popolo al leader. Si può far finta di non vedere cosa sta accadendo, con l’immorale pretesto della tragedia di Eluana? Ieri la voce più forte a sostegno di Napolitano è stata quella del Presidente della Camera, che sembra ormai muoversi in un perimetro laico e costituzionale, da destra repubblicana. Dall’altra sponda del Tevere, mai così stretto, è venuto il plauso a Berlusconi del Cardinal Martino, presidente del pontificio consiglio Giustizia e Pace, e la sua “profonda delusione” per la scelta di Napolitano di non firmare il decreto. Come se insieme alle chiavi di San Pietro il Vaticano avesse anche la golden share del governo italiano e delle sue libere istituzioni. Certo, sotto gli occhi attoniti del Paese e sotto gli occhi che non vedono di Eluana Englaro ieri è andato in scena uno scambio di favori al ribasso, col Dio italiano consegnato alla destra berlusconiana, come un protettorato, in cambio di una difesa di valori disincarnati e precetti vaticani, da parte di un paganesimo politico servile e mercantile. Dal caso Eluana non nasce una forza cristiana: ma un partito ateo e clericale insieme, che è tutta un’altra cosa.
GIORNATA NERA PER LA REPUBBLICA
Stefano Rodotà da La Repubblica 7 febbraio 2009
È una pessima giornata per la Repubblica. Siamo di fronte ad un conflitto costituzionale davvero senza pre- cedenti. E cioè ad un governo che sfida il Presidente della Repubblica che si era fatto fermo difensore delle ragioni della Costituzione e dei diritti fondamentali delle persone. La gravissima decisione del Governo di intervenire con un decreto nella vicenda di Eluana Englaro, dopo che Giorgio Napolitano aveva pubblicamente motivato le ragioni del suo dissenso, sovverte gli equilibri istituzionali, apre una fase in cui si va ben oltre quella “tirannia della maggioranza”, di cui ci ha parlato in modo eloquente il liberale Alexis de Tocqueville, e si entra in una “terra incognita” dove la partita politica è dominata non dal senso dello Stato, ma dalla brutale volontà del presidente del Consiglio di offrire rassicurazioni agli esponenti di una potenza straniera a qualsiasi costo, anche quello dello sconvolgimento della stessa democrazia costituzionale.
È così, anche se una affermazione tanto netta può sembrare brutale. Con una sola mossa vengono colpiti molti bersagli. La Costituzione, unica carta dei valori democraticamente legittimata, vera “Bibbia laica”, viene travolta per porre al suo posto un´etica di Stato attinta ai diktat delle gerarchie vaticane (non a un sentire diffuso nello stesso mondo cattolico, che alla vicenda di Eluana Englaro si è avvicinato con rispetto e pietà). La sovranità del Parlamento viene ulteriormente mortificata, perché ad esso si nega la prerogativa d´essere il luogo privilegiato per discutere e decidere quando si tratta di diritti fondamentali. L´autonomia della magistratura scompare nel momento in cui si cancellano le sue decisioni con un atto d´imperio, creando un precedente devastante per la sopravvivenza stessa di un brandello di Stato di diritto. I diritti fondamentali delle persone non sono più affidati alla garanzia della legge, ma alle pulsioni delle maggioranze.
Ma il bersaglio maggiore è proprio il Presidente della Repubblica, che mai come in questo momento incarna limpidamente la sua funzione di massimo garante della Costituzione. Ispirandosi al principio della “leale collaborazione” tra gli organi dello Stato, Giorgio Napolitano aveva nei giorni scorsi manifestato al governo le sue perplessità su un decreto che, rendendo impossibile l´esecuzione di una decisione della magistratura, si esponeva evidentemente al rischio dell´incostituzionalità. Quando è stato reso noto il possibile contenuto del decreto, che alcune contorsioni interpretative rendevano ancor più inaccettabile (la sentenza n. 334 del 2008 della Corte costituzionale ha chiarito che la competenza in materia spetta alla magistratura), il Presidente della Repubblica ha inviato una lettera al presidente del Consiglio per ribadire il suo punto di vista, con un atto di straordinaria trasparenza e responsabilità, reso necessario proprio dall´eccezionalità della situazione e dall´emozione con la quale viene seguita una vicenda così drammatica. Mai come in questo momento l’opi- nione pubblica ha bisogno di chiarezza, di comportamenti istituzionali immediatamente decifrabili, e non dell´eterno gioco dei sotterfugi, dei percorsi obliqui. Dopo la forzatura dell´atto di indirizzo del ministro Sacconi, rivelatosi privo di una pur minima base giuridica, diveniva ancor più evidente la necessità di seguire percorsi costituzionalmente impeccabili. La lettera di Napolitano è la testimonianza di un scrupolo istituzio-nale raro, di un rigore argomentativo al quale nessuno dovrebbe sottrarsi.
Nelle sue dichiarazioni, invece, il presidente del Consiglio rivela una distanza abissale dalla logica costitu-zionale, una concezione proprietaria della decretazione d´urgenza che, a suo dire, sarebbe completamente sottratta a qualsiasi valutazione da parte del Presidente della Repubblica. Tesi costituzionalmente non propo-nibile, come nella sua lettera aveva già chiarito il Presidente della Repubblica con indicazioni che Berlusconi volutamente ignora, passando addirittura alle minacce: dichiara, infatti, che, se non gli viene consentito di usare i decreti legge a suo piacimento, cambierà la Costituzione. Così, com´è sua collaudata abitudine, schie-ra se stesso e le sue troppo docili truppe per un nuovo e devastante assalto alla legalità, seguendo il suo col-laudato copione plebiscitario che lo porta addirittura ad ignorare quali siano le procedure per la revisione co-stituzionale, visto che afferma che ritornerebbe “dal popolo a chiedere un cambiamento della Costituzione”. Mai dichiarazione fu più rivelatrice di questa. La Costituzione non è la regola delle regole, ma un impaccio di cui ci si può tranquillamente liberare. La rottura costituzionale è dichiarata.
Così Berlusconi gioca il governo contro il Presidente della Repubblica e si prepara a rendere concreta un’al-tra minaccia. Visto che il Presidente della Repubblica ha già dichiarato che non firmerà un decreto “incosti-tuzionale”, porterà in Parlamento un disegno di legge sul testamento biologico da approvare in tre giorni. Così gioca il governo anche contro il Parlamento, esplicitamente declassato dal Principe a buca delle lettere, a luogo dove la sua volontà dev´essere ratificata senza discussione.
Si apre, dunque, una fase in cui al grande tema del morire con dignità si affianca quello, grandissimo, della difesa della Costituzione. Immediata, allora, diventa la responsabilità di tutte le forze politiche, degli organi istituzionali chiamati ad una pubblica assunzione della responsabilità loro propria, come ha già fatto, dimo-strando senso dello Stato e della legalità, il Presidente della Camera, Gianfranco Fini. Responsabilità tanto maggiore in quanto, sia pure attraverso il discutibile strumento dei sondaggi, l ´opinione pubblica si è espres-sa, dichiarandosi per il 79% a favore del morire dignitoso di Eluana Englaro e addirittura per l´83% a favore di una Chiesa che parli alle coscienze e non pretenda di imporre la fede attraverso gli atti del legislatore. Torna qui alla memoria il diverso spirito dei cattolici democratici, che si coglie nelle parole dette da Aldo Moro al consiglio nazionale della Dc all´indomani della sconfitta nel referendum contro la legge sul divor-zio, nel 1974, con le quali si metteva in guardia contro le forzature «con lo strumento della legge, con l’auto-rità del potere, al modo comune di intendere e disciplinare, in alcuni punti sensibili, i rapporti umani»; e si consigliava «di realizzare la difesa di principi e valori cristiani al di fuori delle istituzioni e delle leggi, e cioè nel vivo, aperto e disponibile tessuto della nostra vita sociale». Ma il limite all´intervento del legislatore non trova il suo fondamento solo in ragioni di opportunità. Ricordiamo le parole alte e forti con le quali si chiude l´articolo 32 della Costituzione, dedicato al fondamentale diritto alla salute, dunque al governo della propria vita: «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». È proprio questo il caso di Eluana Englaro e di tutti coloro che vorranno liberamente decidere sul loro morire. Vi è un confine costituzionale che il legislatore non può varcare né con decreti legge, né con altri strumenti normativi oltre il quale compare la persona con la sua autonomia e la sua libertà.
Quei sondaggi, allora, sono un monito e una risorsa. Un monito alle forze politiche, che di quei cittadini do-vrebbero essere consapevoli interlocutori. E si tratta di una risorsa che sono gli stessi cittadini a dover utiliz-zare, levando forte la voce perché la forzatura istituzionale non passi. Nessun dialogo, nessuna collaborazio-ne politica possono svilupparsi in un panorama disseminato da macerie istituzionali.
NON POTEVA ESSERCI SCEMPIO PIU’ ATROCE
EUGENIO SCALFARI da La Repubblica 8 febbraio 2009
IL CASO ENGLARO appassiona molto la gente poiché pone a ciascuno di noi i problemi della vita e della morte in un modo nuovo, connesso all’evolversi delle tecnologie. Interpella la libertà di scelta di ogni persona e i modi di renderla esplicita ed esecutiva. Coinvolge i comportamenti privati e le strutture pubbliche in una società sempre più multiculturale. Quindi impone una normativa per quanto riguarda il futuro che garantisca la certezza di quella scelta e ne rispetti l’attuazione.
Ma il caso Englaro è stato derubricato l’altro ieri da simbolo di umana sofferenza e affettuosa pietà ad occasione politica utilizzabile e utilizzata da Silvio Berlusconi e dal governo da lui presieduto per raggiungere altri obiettivi che nulla hanno a che vedere con la pietà e con la sofferenza. Non ci poteva essere operazione più spregiudicata e più lucidamente perseguita.
Condotta in pubblico davanti alle televisioni in una conferenza stampa del premier circondato dai suoi ministri sotto gli occhi di milioni di spettatori.
Non stiamo ricostruendo una verità nascosta, un retroscena nebuloso, una opinabile interpretazione. Il capo del governo è stato chiarissimo e le sue parole non lasciano adito a dubbi. Ha detto che “al di là dell’obbligo morale di salvare una vita” egli sente “il dovere di governare con la stessa incisività e rapidità che è assicurata ai governanti degli altri paesi”.
Gli strumenti necessari per realizzare quest’obiettivo indispensabile sono “la decretazione d’urgenza e il voto di fiducia”; ma poiché l’attuale Costituzione semina di ostacoli l’uso sistematico di tali strumenti, lui “chiederà al popolo di cambiare la Costituzione”.
La crisi economica rende ancor più indispensabile questo cambiamento che dovrà avvenire quanto prima.
Non ci poteva essere una spiegazione più chiara di questa. Del resto non è la prima volta che Berlusconi manifesta la sua concezione della politica e indica le prossime tappe del suo personale percorso; finora si trattava però di ipotesi vagheggiate ma consegnate ad un futuro senza precise scadenze. Il caso Englaro gli ha offerto l’occasione che cercava.
Un’occasione perfetta per una politica che poggia sul populismo, sul carisma, sull’appello alle pulsioni elementari e all’emotività plebiscitaria.
Qui c’è la difesa di una vita, la commozione, il pianto delle suore, l’anatema dei vescovi e dei cardinali, i disabili portati in processione, le grida delle madri. Da una parte. E dall’altra i “volontari della morte”, i medici disumani che staccano il sondino, gli atei che applaudono, i giudici che si trincerano dietro gli articoli del codice e il presidente della Repubblica che rifiuta la propria firma per difendere quel pezzo di carta che si chiama Costituzione.
Quale migliore occasione di questa per dare la spallata all’odiato Stato di diritto e alla divisione dei poteri così inutilmente ingombrante? Non ha esitato davanti a nulla e non ha lesinato le parole il primo attore di questa messa in scena. Ha detto che Eluana era ancora talmente vitale che avrebbe potuto financo partorire se fosse stata inseminata. Ha detto che la famiglia potrebbe restituirla alle suore di Lecco se non vuole sottoporsi alle spese necessarie per tenerla in vita.
Ha detto che i suoi sentimenti di padre venivano prima degli articoli della Costituzione. E infine la frase più oscena: se Napolitano avesse rifiutato la firma al decreto Eluana sarebbe morta.
Eluana scelta dunque come grimaldello per scardinare le garanzie democratiche e radunare in una sola mano il potere esecutivo e quello legislativo mentre con l’altra si mette la museruola alla magistratura inquirente e a quella giudicante.
Questo è lo spettacolo andato in scena venerdì. Uno spettacolo che è soltanto il principio e che ci riporta ad antichi fantasmi che speravamo di non incontrare mai più sulla nostra strada.
Ci sono altri due obiettivi che l’uso spregiudicato del caso Englaro ha consentito a Berlusconi di realizzare.
Il primo consiste nella saldatura politica con la gerarchia vaticana; il secondo è d’aver relegato in secondo piano, almeno per qualche giorno, la crisi economica che si aggrava ogni giorno di più e alla quale il governo non è in grado di opporre alcuna valida strategia di contrasto.
Dopo tanto parlare di provvedimenti efficaci, il governo ha mobilitato 2 miliardi da aggiungere ai 5 di qualche settimana fa. In tutto mezzo punto di Pil, una cifra ridicola di fronte ad una recessione che sta falciando le imprese, l’occupazione, il reddito, mentre aumentano la pressione fiscale, il deficit e il debito pubblico. Di fronte ad un’economia sempre più ansimante, oscurare mediaticamente per qualche giorno l’attenzione del pubblico depistandola verso quanto accade dietro il portone della clinica “La Quiete” dà un po’ di respiro ad un governo che naviga a vista.
Quando crisi ingovernabili si verificano, i governi cercano di scaricare le tensioni sociali su nemici immaginari. In questo caso ce ne sono due: la Costituzione da abbattere, gli immigrati da colpire “con cattiveria”.
Il Vaticano si oppone a quella “cattiveria” ma ciò che realmente gli sta a cuore è mantenere ed estendere il suo controllo sui temi della vita e della morte riaffermando la superiorità della legge naturale e divina sulle leggi dello Stato con tutto ciò che ne consegue. Le parole della gerarchia, che non ha lesinato i complimenti al governo ed ha platealmente manifestato delusione e disapprovazione nei confronti del capo dello Stato ricordano più i rapporti di protettorato che quelli tra due entità sovrane e indipendenti nelle proprie sfere di competenza. Anche su questo terreno è in atto una controriforma che ci porterà lontani dall’Occidente multiculturale e democratico.
Nel suo articolo di ieri, che condivido fin nelle virgole, Ezio Mauro ravvisa tonalità bonapartiste nella visione politica del berlusconismo. Ha ragione, quelle somiglianze ci sono per quanto riguarda la pulsione dittatoriale, con le debite differenze tra i personaggi e il loro spessore storico.
Ci sono altre somiglianze più nostrane che saltano agli occhi. Mi viene in mente il discorso alla Camera di Benito Mussolini del 3 gennaio 1925, cui seguirono a breve distanza lo scioglimento dei partiti, l’instaurazione del partito unico, la sua identificazione con il governo e con lo Stato, il controllo diretto sulla stampa. Quel discorso segnò la fine della democrazia parlamentare, già molto deperita, la fine del liberalismo, la fine dello Stato di diritto e della separazione dei poteri costituzionali.
Nei primi due anni dopo la marcia su Roma, Mussolini aveva conservato una democrazia allo stato larvale. Nel novembre del ’22, nel suo primo discorso da presidente del Consiglio, aveva esordito con la frase entrata poi nella storia parlamentare: “Avrei potuto fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli”.
Passarono due anni e non ci fu neppure bisogno del bivacco di manipoli: la Camera fu abolita e ritornò
vent’anni dopo sulle rovine del fascismo e della guerra.
In quel passaggio del 3 gennaio ’25 dalla democrazia agonizzante alla dittatura mussoliniana, gli intellettuali ebbero una funzione importante.
Alcuni (pochi) resistettero con l’intransigenza; altri (molti) si misero a disposizione.
Dapprima si attestarono su un attendismo apparentemente neutrale, ma nel breve volgere di qualche mese si intrupparono senza riserve.
Vedo preoccupanti analogie. E vedo titubanze e cautele a riconoscere le cose per quello che sono nella realtà. A me pare che sperare nel “rinsavimento” sia ormai un vano esercizio ed una svanita illusione. Sui problemi della sicurezza e della giustizia la divaricazione tra la maggioranza e le opposizioni è ormai incolmabile. Sulla riforma della Costituzione il territorio è stato bruciato l’altro ieri.
E tutto è sciaguratamente avvenuto sul “corpo ideologico” di Eluana Englaro. Non ci poteva essere uno scempio più atroce.
UN GOLPE MORALE E ISTITUZIONALE
di Paolo Flores d’Arcais, dal quotidiano spagnolo “El Pais”, 7 febbraio 2009
Quello che Berlusconi sta tentando in queste ore è un vero e proprio “golpe”, morale e istituzionale. Vuole imporre al paese una legge medioevale, che sottrae al cittadino il diritto sulla propria vita e sul proprio corpo, per consegnarlo alla volontà totalitaria della Chiesa e dello Stato. E poiché nel fare questo si scontra con tutte le decisioni prese al riguardo dalla magistratura (di ogni ordine e grado, compreso quello europeo) e con il rifiuto del Capo dello Stato di firmare un decreto-legge spudoratamente anticostituzionale, Berlusconi annuncia che intende stravolgere legge e Costituzione con una seduta fiume del Parlamento e con proclami diretti al “popolo” (cioè ai telespettatori che manipola in forza del suo monopolio televisivo totalitario).
Il caso di Eluana Englaro è infatti chiarissimo: in stato vegetativo permanente da diciassette anni, aveva espresso con il padre e con gli amici la sua ferma volontà di non essere “salvata” da nessuna macchina, se mai le fosse accaduto quello che era accaduto ad una sua amica. Tale volontà è stata giudicato inequivocabile dai tribunali che si sono dovuti pronunciare, e quindi una sentenza definitiva e inappellabile ha consentito finalmente che a Eluana venisse “staccata la spina”.
Del resto, la legge italiana garantisce al cittadino il rifiuto di qualsiasi cura medica, anche quando la mancata cura porta certamente alla morte: si può rifiutare un’amputazione, una trasfusione, e qualsiasi altro intervento. E non si può imporre l’alimentazione forzata neppure a chi voglia farsi morire attraverso uno sciopero della fame e della sete.
Ma di fronte al diktat della Chiesa di Ratzinger, che ha gridato all’assassinio se si fosse rispettata la volontà di Eluana, il governo di Berlusconi (un governo che più pagano e sottomesso a Mammona non si può) ha violato qualsiasi norma e procedura, pur di imporre la volontà della Chiesa gerarchica (moltissimi preti e anche qualche vescovo hanno preso invece posizioni rispettose della legge e della libertà degli individui).
Berlusconi ha deciso di aprire un vero e proprio “casus belli”, dichiarando di voler cambiare immediatamente la Costituzione per poter governare sistematicamente con decreti-legge, senza le “lungaggini” delle discussione parlamentari, proclamando così in modo aperto la sua pulsione di dittatura. L’Italia entra perciò in un periodo di emergenza democratica assoluta, tanto più grave in quanto l’Europa sembra ancora non rendersi conto della serietà della vocazione totalitaria di Berlusconi.
Nel paese è partito immediatamente un tam-tam mediatico di cittadino che vogliono auto-organizzare l’opposizione alle azioni liberticide del governo. Manca invece una reazione degna del nome da parte del Partito democratico di Veltroni, ormai impantanato nella sua subalternità psicologica e culturale al berlusconismo, malgrado le dichiarazioni di Berlusconi non lascino ormai adito a dubbi: il suo governo vuole distruggere ogni forma di controllo, ogni limite, ogni “balance”, ogni autonomia, che intralci la dittatura di fatto del governo. Magistrati, giornalisti, sindacati, e qualsiasi cittadino impegnato, vengono dichiarati “comunisti”, o magari contigui al terrorismo, se solo non si piegano a un governo eversivo che sta facendo a pezzi la democrazia liberale in Italia.
9/2/2009
DALLA PARTE DELLE REGOLE
CARLO FEDERICO GROSSO da La Stampa 9 febbraio 2009
Ciò che sta accadendo attorno alla vicenda Englaro suscita perplessità e tormenti. Non intendo affrontare il problema etico. Non sarei titolato a farlo. Soprattutto, sono convinto che sui temi dell’inizio e della fine della vita ciascuno deve fare, in silenzio, soltanto i conti con la propria coscienza e non imporre agli altri le proprie eventuali certezze. Intendo invece porre alcuni interrogativi concernenti le questioni di diritto.
La prima questione suscitata dalle più recenti iniziative del governo riguarda la legittimità del decreto legge approvato venerdì mattina. Su questo punto non sono possibili discussioni. Come ha valutato il Presidente della Repubblica, il decreto era costituzionalmente illegittimo per mancanza del requisito della necessità e urgenza. Allo scopo di non violare il principio secondo cui la legge è, necessariamente, generale e astratta, il governo aveva proposto un testo destinato a regolare «tutti i casi» in cui si fosse posto un problema di alimentazione e idratazione artificiale. Ma, con riferimento alla regola generale enunciata, non vi era nessuna ragione di urgenza. Tanto è vero che il Parlamento, nonostante giacessero da tempo davanti alle sue commissioni disegni di legge che ipotizzavano lo stesso principio, aveva discusso per mesi senza giungere ad alcuna decisione. Nessun dubbio, per altro verso, che al Capo dello Stato competa una valutazione di merito in ordine alla sussistenza dei requisiti che legittimano l’adozione della decretazione d’urgenza e non una semplice funzione di avallo notarile delle valutazioni del governo. Napolitano aveva d’altronde, in passato, più volte richiamato l’attenzione sulla necessità di utilizzare con attenzione lo strumento del decreto legge. Il caso di cui si discute si è inserito, pertanto, in questa prospettiva di rigoroso rispetto presidenziale della legalità costituzionale, ampiamente rilevato da questo giornale. Di tutt’altro segno sono le questioni giuridiche che solleva il disegno di legge, di uguale contenuto, approvato dal governo venerdì sera, e che si vorrebbe votato dal Parlamento nel giro di pochi giorni. Nei suoi confronti cadono, ovviamente, le menzionate ragioni d’illegittimità. Cionondimeno, non credo che ogni motivo di perplessità venga meno. Per ragioni di brevità, mi limiterò ad accennare a tre profili che mi sembrano meritevoli di particolare attenzione. Il primo riguarda i tempi preventivati per l’approvazione del disegno di legge: oggi o domani al Senato, fra domani e dopodomani alla Camera. Non si è mai assistito a una simile sequenza temporale su di un tema di tanto rilievo. Se davvero il programma sarà rispettato, significherà che il dibattito in Parlamento sarà stato soffocato utilizzando, con una certa violenza, gli strumenti previsti dai regolamenti parlamentari. Gli eventuali oppositori non avranno, di fatto, avuto diritto di parola. Mi domando: è consentita, in uno Stato di diritto, una prevaricazione tanto profonda della dialettica parlamentare?
Il secondo concerne il contenuto del disegno di legge. Esso stabilisce che, in attesa dell’approvazione di una disciplina legislativa organica, «l’alimentazione e l’idratazione non possono, in alcun caso, essere sospese da chi assiste soggetti non in grado di provvedere a se stessi». E se la persona interessata, quando era ancora consapevole, avesse manifestato la sua contrarietà a trattamenti medici diretti a mantenerla artificialmente in vita? Costituisce principio di diritto pacifico, riconosciuto da numerose sentenze della Cassazione, che nessuno può essere sottoposto a trattamenti sanitari contro la sua volontà: lo stabilisce, ancora una volta, la Costituzione. Ma, allora, lo stesso contenuto del disegno di legge è fortemente sospetto d’illegittimità, poiché imporrebbe un trattamento di mantenimento artificiale in vita anche a chi ha dichiarato di rifiutarlo. C’è d’altronde un terzo profilo sul quale, ritengo, occorre ragionare. La Cassazione, come è noto, ha «definitivamente» riconosciuto a Eluana Englaro, o a chi per lei, il diritto di staccare il sondino nasogastrico attraverso il quale si realizza il suo mantenimento artificiale in vita. Ebbene, di fronte a un diritto ormai definitivamente riconosciuto dall’autorità giudiziaria, davvero si può ritenere che una legge successiva sia, di per sé, in grado di cancellare il giudicato? Si badi che, curiosamente, lo stesso governo, sul punto, deve avere avuto i suoi dubbi. Infatti nella relazione di accompagnamento al decreto ha scritto che è vero che, nel caso di specie, c’è stata una sentenza della Cassazione, ma essa, data la particolare natura del provvedimento assunto (di mera «volontaria giurisdizione»), non avrebbe dato vita ad alcun «accertamento di un diritto». Così facendo, lo stesso governo ha ammesso che se, invece, fosse stato riconosciuto un diritto, esso sarebbe ormai intangibile anche di fronte alla legge. Ebbene, poiché, a differenza di quanto sostenuto dal governo, la Cassazione ha, in realtà, riconosciuto un vero e proprio diritto individuale a non essere più medicalmente assistiti contro la propria volontà comunque manifestata, è lecito dubitare che il legislatore possa davvero, ormai, interferire, con una legge, su tale situazione giuridica costituita.
A maggior ragione, non potrebbero, d’altronde, essere considerati legittimi ulteriori interventi a livello amministrativo diretti a ostacolare, o eventualmente impedire, l’esercizio del diritto ormai definitivamente riconosciuto. Lo impone, ancora una volta, la salvaguardia del principio costituzionale della divisione dei poteri. Un’ultima riflessione. Il presidente del Consiglio, nella concitazione degli ultimi giorni, ha dichiarato che la Costituzione verrà presto cambiata. Trascurando le sue considerazioni, storicamente errate, sull’asserita matrice di parte dei principi costituzionali fondamentali, è comunque utile ricordare che, fino al momento di una eventuale loro modifica, le regole attualmente scritte non dovranno essere, in ogni caso, infrante.
TECNICA DI UN COLPO DI STATO
di Marco Travaglio da L’Unità 7 febbraio 2009
A lui non frega nulla di Eluana. A lui interessa affermare il principio che una sentenza definitiva può essere ribaltata per decreto, o per legge ordinaria, o per legge costituzionale. A lui non frega nulla della vita e della morte. A lui interessa compiacere il Vaticano con un decreto impopolare ma a costo zero, fatto già sapendo che il Quirinale non lo firmerà, dunque senza pagare alcun prezzo di impopolarità. A lui non frega nulla delle questioni etiche. A lui interessa coprire il colpo di mano contro la giustizia e la civiltà: i medici trasformati in questurini e delatori contro i malati clandestini; le ronde illegali legalizzate; le intercettazioni legali proibite; gli avvocati promossi a padroni del processo, che faranno durare decenni convocando migliaia di testimoni inutili per procacciare ai clienti ricchi l’agognata prescrizione; i pm degradati ad «avvocati dell’accusa», come negli stati di polizia, dove appunto la polizia, braccio armato del governo, fa il bello e il cattivo tempo senza controlli della magistratura indipendente; dulcis in fundo, abolito l’appello del pm contro l’assoluzione o la prescrizione in primo grado, ma non quello del condannato (non hai vinto? Ritenta, sarai più fortunato), sempre all’insegna della «parità fra difesa e accusa». Tutte leggi incostituzionali che, dopo il no del Quirinale al decreto contra Eluana, hanno molte possibilità in più di passare. Per giunta, inosservati. Parlare di colpo di Stato è puro eufemismo. E poi, che sarà mai un colpo di Stato? Se la Costituzione non lo prevede, si cambia la Costituzione.
– Attacco allo Stato – l’Unità
PERICOLO PUBBLICO
Concita de Gregorio da L’Unità 8 febbraio, 2009)
Anche nelle tragedie sono sempre i dettagli a dare la misura del disastro, a rivelare l’inganno. Uno sguardo, un gesto, una scarpa slacciata. Qualcosa che rompa l’ipnosi e illumini d’improvviso la scena per quello che è. Ieri, per Berlusconi, è stato il linguaggio. Sì certo il bonapartismo. Sì l’attentato alla Costituzione, l’aggressione al capo dello Stato, la democrazia in pericolo, Eluana che fa da pretesto per una partita di potere. La corsa al Quirinale, lo scardinamento delle regole, l’arbitrio assoluto di uno solo: sì certo, tutto questo saliva in un crescendo omeopatico segnato ogni tanto da un sussulto. Poi quelle parole: «Eluana mi dicono ha un bell’aspetto, funzioni attive, il ciclo mestruale». Il ciclo mestruale, ha detto il presidente del consiglio ai microfoni. Poi: da parte di suo padre «non c’è altro che la volontà di togliersi di mezzo una scomodità». Togliersi di mezzo? Una scomodità? Ma come parla. Di cosa parla. Ecco cosa fa veramente paura, cosa sveglia decine di migliaia di persone: l’assenza di freni inibitori, il delirio di onnipotenza che fa straparlare senza controllo proprio come chi abbia perso definitivamente il senso di realtà, di misura e di rispetto. Un pericolo pubblico, collettivo: guida a folle velocità senza freni, l’Italia è a bordo. Bisogna scendere. Non c’è tempo da perdere. Che accusi Napolitano di voler uccidere, che giudichi la Costituzione «bolscevica» e che prometta di cambiarla lui da solo, che i regolamenti gli sembrino antiquati dunque anche questi da spazzar via sono solo altri sintomi dello stato di alterazione. L’onnipotenza è del resto in buona misura reale: le leggi che si è costruito su misura glielo permettono. Potrebbe far irruzione a Sanremo, se gli garba, e dall’Ariston parlare al paese per giorni: raccontare barzellette, irridere il capo dello Stato. In veste istituzionale, naturalmente. Come ieri a Cagliari, a una settimana dal voto: «visita istituzionale» hanno spiegato docili i tg. Beppino Englaro, maschera tragica di un’Italia sommersa dalla melma, gli si è rivolto direttamente: venga a vedere mia figlia, ha detto. A Berlusconi e a Napolitano ha chiesto: venite da padri, venite a vedere com’è adesso. Gli sarebbe bastato, in questi mesi, scattarle una foto e mostrarla per zittire chi grida: non l’ha fatto, un esempio maestoso di amore paterno. Chi abbia assistito un malato terminale sa cosa intenda dire. Non servono le parole. Per tutto il giorno al giornale abbiamo fatto ieri da telefonisti e dattilografi. Hanno chiamato e scritto per dare sostegno a Napolitano gente comune e premi Nobel, ministri e presidenti stranieri, studenti e scienziati. Il francese Pierre Moscovici, già ministro per l’Europa, lo spagnolo Enrique Barón Crespo, ex presidente del Parlamento Europeo, il tedesco Martin Schultz presidente del Pse (il kapò, ricordate? Ma allora il linguaggio era più controllato) hanno firmato il nostro appello. Rita Levi Montalcini e Dario Fo, premi Nobel, Umberto Veronesi e Ignazio Marino, Roberto Benigni e Pedrag Matvejevic hanno messo le loro firme sotto quelle di Furio Colombo e di Umberto Eco, di Pietro Ingrao e di Andrea Camilleri. A notte continuavano a chiamare. Trascriveremo ogni nome. Esiste un’altra Italia. Non faremo silenzio.
L’AMACA
da La Repubblica del 7 febbraio 2009
In questi giorni plumbei, in questo clima greve e pericoloso, confesso di essere debitore al premier del solo istante di ilarità che sono riuscito a concedermi. E’ stato quando Berlusconi, nel corso di un discorso da brivido che lo mette in collisione col Quirinale, ha discettato sulla “fornitura” di cibo ed acqua a E.E. (scrivo le solo iniziali per non sentirmi partecipe dello scempio politico di quel nome e di quel corpo). “Fornitura”, specie se pronunciato con la forte cadenza meneghina del premier, è un termine da magazziniere di una ditta di ferramenta: Berlusconi intendeva probabilmente “somministrazione” o altro, ma il suo animo aziendalista, come sempre accade, ha avuto la meglio.
Posto che sia un eversore, un aspirante dittatore (anzianotto ormai: o si sbriga o non farà più in tempo) o semplicemente un demagogo autocrate, uno che parla di forniture di cibo e di acqua è destinato a rimanere, idealmente, ancorchè multimiliardario, un milanese che lavora in ditta. Non so dire se questo sia solo il dettaglio comico di una possibile tragedia, o il limite che impedirà alla tragedia di compiersi, conservandoci a lungo nello stato di pubblico di una gigantesca commedia.
Michele Serra
L’AMACA
da La Repubblica dell’ 8 febbraio 2009
Forse sono diventato ipersensibile, come chiunque senta, da anni, lo stesso vecchio chiodo piantarsi nella stessa vecchia ferita. Ma ogni volta che Berlusconi pronuncia anche una sola parola sulla famiglia Englaro mi sento umiliato dalla sua grossolanità morale. Al consueto effetto dell’elefante nel negozio di porcellane si aggiunge la totale incongruenza tra un argomento così alto e un livello così basso. Specie quando costui osa addentrarsi in dettagli – come dire – fisiologici, che riguardano un corpo inerte e lo strazio quasi ventennale di chi la veglia e la cura, mi si rivolta lo stomaco. Un argomento che anche i filosofi accostano con sorvegliatissima prudenza diventa, in bocca a lui, la ciancia superficiale di un importuno, per giunta dotato di poteri enormi, che in genere agli importuni non vengono affidati.
In questi giorni siamo di fronte a un doloroso strappo istituzionale e costituzionale, ma forse perfino più dolorosi sono gli sgarri verbali che il premier si è concesso, blaterando di gravidanze e di ” bell’aspetto”. Chissà se, di fronte a questo osceno spettacolo, almeno qualcuno dei suoi elettori ha potuto aprire gli occhi. L’illusione è che esista una soglia oltre la quale finalmente la passione politica si fa da parte, e lascia il posto alla valutazione umana. Non posso credere che essere di destra, oggi in Italia, significhi rassegnarsi a essere rappresentati da uno di quella fatta.
Michele Serra
A FURIA DI GRIDARE AL LUPO
ATTACCHI E SMENTITE
di Roberto Alajmo scrittore (da L’Unità 9 febbraio 2009)
Anche stavolta è arrivata la smentita:il signor B. tiene nella massima considerazione la Costituzione italiana.
Abbiamo scherzato. Scemi noi che pensiamo di essere alla vigilia di un colpo di stato. E’ successo in passato e succederà di nuovo. E ogni volta, ci sentiremo rassicurati dal contrordine.
La storiella di “Al lupo al lupo” ce la raccontavano da piccoli quando piangevamo senza motivo, per insegnarci a dare l’allarme solo quando l’allarme c’è veramente. Ma qui siamo di fronte a un’evoluzione della favola , perché è il lupo stesso che grida “al lupo”.
Ciò ci disorienta, perché non eravamo abituati a questi strappi, e per giunta proprio da parte del lupo, che avrebbe tutto l’interesse di rassicurarci.
Noi ci caschiamo ogni volta che lui le spara grosse, sempre più grosse, e saltiamo dalla sedia e ci indignamo, e organizziamo sit-in di protesta. Ma ogni volta con minore convinzione.
Una parte più o meno inconscia di noi sa che tanto poi si scoprirà che sono stati i giornalisti, persino le telecamere a fraintendere quello che lui aveva detto.
Bisogna prendere atto che una parte del Paese – tra cui, secondo me, molti di quelli stessi che l’hanno votato – si rifiuta di prendere sul serio quello che dice il Presidente del Consiglio. Per cui ogni alzata di indignazione risulta un po’ più fievole della precedente.
Le difese immunitarie degli italiani si sono assottigliate, negli ultimi anni: la soglia dell’indignazione si è usurata. E si capisce: mica si può scendere in piazza un giorno sì e un giorno no. L’indignazione è una spada che si arrugginisce facilmente.
La favola finisce che un giorno lui dirà un’altra cosa abnorme, e nessuno salterà più dalla sedia, in attesa della retromarcia. La aspetteremo per un giorno o due, ma non arriverà. Sarà allora che il colpo di stato ci sarà veramente.
LE IDEE
IL VELENO NICHILISTA CHE ANIMA IL REGIME
di GUSTAVO ZAGREBELSKY( da La Repubblica 9 febbraio 2009)
Viviamo un momento politico-costituzionale certamente particolare. Questo non è in discussione, sia presso i fautori, sia presso i detrattori del regime attuale. Non sarà fuori luogo precisare che, in questo contesto, la parola regime vale semplicemente a dire – secondo il significato neutro per cui si parla di regime liberale, democratico, autoritario, parlamentare, presidenziale, eccetera – “modo di reggimento politico” e non ha alcun significato valutativo, come ha invece quando ci si chiede, con intenti denigratori espliciti o impliciti, se in Italia c’è “il regime”. Ma che tipo di regime? Questa è la domanda davvero interessante.
Alla certezza – viviamo in “un” regime che ha suoi caratteri particolari – non si accompagna però una definizione che dia risposta a quella domanda. Sfugge il carattere fondamentale, il “principio” o (secondo l’immagine di Montesquieu) il ressort, molla o energia spirituale che lo fa vivere secondo la sua essenza. Un concetto semplice, una definizione illuminante, una parola penetrante, sarebbero invece importanti per afferrarne l’intima natura e per prendere posizione.
Le definizioni, per la verità, non mancano, spesso fantasiose e suggestive. Anzi sovrabbondano, a dimostrazione che, forse, nessuna arriva al nocciolo, ma tutte gli girano intorno: autocrazia; signoria moderna; egoarchia; governo padronale o aziendale; dominio mediatico; grande seduzione; regime dell’unto del Signore; populismo o unzione del popolo; videocrazia; plutocrazia, governo demoscopico. Si potrebbe andare avanti. Si noterà che queste espressioni, a parte genericità ed esagerazioni, colgono (se li colgono) aspetti parziali e, soprattutto, sono legate a caratteri e proprietà personali di chi il regime attuale ha incarnato e tuttora incarna.
Ed è una visione riduttiva, come se si trattasse soltanto di un affare di persone; come se, cambiando le persone, potesse cambiare d’un tratto e del tutto la trama della politica. Invece, prassi, mentalità e costumi nuovi si sono introdotti partendo da lontano; sistemi di potere e metodi di governo sono stati istituiti. Un regime non nasce di colpo, va consolidandosi e forse andrà lontano. È un’illusione pensare che ciò che è stato ed è possa poi passare senza lasciare l’orma del suo piede. La questione che ci interroga è quella di cogliere con un concetto essenziale, comprensivo ed esplicativo di ciò che di oggettivo è venuto a stabilizzarsi e a sedimentare nella vita pubblica e che opera e opererà in noi, attorno a noi e, forse, contro di noi. Se, parlando di regime oggi, è inevitabile che il pensiero corra a ciò che si denomina genericamente “berlusconismo”, dobbiamo tenere presente che qui non si tratta di vizi o virtù personali ma di una concezione generale del potere che si irraggia più in là.
Colpisce che tutti i tentativi per arrivare a cogliere un’essenza – giusti o sbagliati che siano – si fermino comunque ai mezzi: denaro, televisione, blandizie e minacce, corruzione, seduzione, confusione del pubblico nel privato e viceversa, impunità, sondaggi, eccetera. Ma tutto ciò in vista di quale fine? Proprio il fine dovrebbe essere ciò che qualifica l’essenza di un regime politico, ciò che gli dà senso e ne rende comprensibile la natura. Se non c’è un fine, è puro potere, potere per il potere, tautologia. Ma qui il fine, distinto dai mezzi, è introvabile.
A meno di credere a parole d’ordine tanto generiche da non significare nulla o da poter significare qualunque cosa – libertà, identità nazionale, difesa dell’Occidente, innovazione, sviluppo, o altre cose di questo genere – il fine non si vede affatto, forse perché non c’è. O, più precisamente, il fine c’è ma coincide con i mezzi: è proteggere e potenziare i mezzi. Una constatazione davvero sbalorditiva: un’aberrazione contro-natura, una volta che la politica sia intesa come rapporto tra mezzi e fini, rapporto necessario affinché il governo delle società sia dotato di senso e il potere e la sua pretesa d’essere riconosciuto come legittimo possano giustificarsi su qualcosa di diverso dallo stesso puro potere.
A parte forse l’autore della massima “il potere logora chi non ce l’ha”, nessuno, nemmeno il Principe machiavelliano, ha mai attribuito al potere un valore in sé e per sé stesso. “Il fine giustifica i mezzi” è uno dei motti del machiavellismo politico; ma che succede se “i mezzi giustificano i mezzi”? È la crisi della ragion politica, o della politica tout court. È il trionfo della “ragione strumentale” nella politica.
Siamo di fronte a qualcosa di incomprensibile, inafferrabile, incontrollabile, qualcosa all’occorrenza capace di tutto, come in effetti vediamo accadere sotto i nostri occhi: un giorno dialogo, un altro scomuniche; un giorno benevolenza, un altro minacce; un giorno legalità, un altro illegalità; ciò che è detto un giorno è contraddetto il giorno dopo. La coerenza non riguarda i fini ma i mezzi, cioè i mezzi come fini: si tratta di operare, non importa come e con quale coerenza, allo scopo di incrementare risorse, influenza, consenso.
Il politico adatto a questa corruzione della vita pubblica è l’uomo senza passato e senza radici, che sa spiegare le vele al vento del momento; oppure l’uomo che crede di avere un passato da dimenticare, anzi da rinnegare, per presentarsi anch’egli come uomo nuovo. È colui che proclama la fine delle distinzioni che obbligherebbero a stare o di qua o di là.
Così, si può fingere di essere contemporaneamente di destra e di sinistra o di stare in un “centro” senza contorni; si può avere un’idea, ma anche un’altra contraria; ci si può presentare come imprenditori e operai; si può essere atei o agnostici ma dire che, comunque, “si è alla ricerca”; si può dare esempio pubblico della più ampia libertà nei rapporti sessuali e farsi paladini della famiglia fondata sul santo matrimonio; si può essere amico del nemico del proprio amico, eccetera, eccetera. Insomma: il “politico” di successo, in questo regime, è il profittatore, è l’uomo “di circostanza” in ogni senso dell’espressione, è colui che “crede” in tutto e nel suo contrario.
Questo tipo di politico conosce un solo criterio di legittimità del suo potere, lo stare a galla ed espandere la sua influenza. Il suo fallimento non sta nella mancata realizzazione di un qualche progetto politico. Se egli vive di potere che cresce, anche una piccola battuta d’arresto può essere l’inizio della sua fine. Non sarà più creduto. Per questo ogni indecisione, obbiettivo mancato o fallimento deve essere nascosto o mascherato e propagandato come un successo.
La corruzione e la mistificazione della dura realtà dei fatti e della loro verità è nell’essenza di questo regime. Il rapporto col mondo esterno corre il rischio di essere “disturbato”. L’uomo di potere, di questo tipo di potere, non vede di fronte a sé alcuna natura esterna, poiché diventa ai suoi occhi egli stesso natura (naturalmente, lo si sarà compreso, si sta parlando di “tipo ideale”, cioè di un modello che, nella sua perfezione, esiste solo in teoria).
Abbiamo iniziato queste considerazioni col proposito di cercare una definizione che, in una parola, condensi tutto questo. L’abbiamo trovata? Forse sì. Non ci voleva tanto: nichilismo, inteso come trasformazione dei fatti e delle idee in nulla, scetticismo circa tutto ciò che supera l’ambito (sia esso pure un ambito smisurato) del proprio interesse. Chi conosce la storia di questo concetto sa di quale veleno, potenzialmente totalitario, esso abbia mostrato d’essere intriso. Ciò che, invece, si fa fatica a comprendere è come chi tuona tutti i giorni contro il famigerato “relativismo” non abbia nessun ritegno, addirittura, a tendergli la mano.
IL PARTITO PAGANO E LA CHIESA
di Luigi Manconi (da L’Unità 8 febbraio 2009)
Ezio Mauro, a proposito della fisionomia del Popolo delle Libertà, come meglio definita dalle ultime scelte sul “caso Englaro”, ha parlato di un “partito ateo e clericale”: La definizione è perfetta. Il Pdl non è un partito di plastica, al contrario, ha una identità debolissima ed è privo di storia e di memoria. Le componenti che pure dispongono di una qualche cultura politica (Alleanza nazionale e i frammenti della diaspora democristiana) risultano sopraffatte da una dimensione anti-politica avaloriale che domina nella parte, maggioritaria, costituita da Forza Italia. Quest’ultima è connotata da una ispirazione pragmatica, che non prevede ideologie e culture consolidate nè idee forti e valori significativi.
Un’ispirazione tutta concentrata sulla tutela degli interessi e sulla difesa di gruppi, corporazioni, lobbies. Ma questo partito degli interessi e delle parentele scopre di avere bisogno di una qualche identità, fondata su valori condivisi, pena l’inaridirsi delle sue ragioni sociali.
Dal momento che non dispone d’altro, il Pdl si rivolge alla sola identità che, pur segnata da profonda crisi, conserva una sua forza: quella cattolica. Si ha, così, un singolare fenomeno: un partito incondizionatamente amorale e secolarizzato, qualificato dalla “anarchia dei valori” (Silvio Berlusconi), si annette la cultura della confessione religiosa più diffusa. Il Berlusconismo – come modello di vita consumistico e “pagano”, concezione dell’esistenza tutta immediatista ed edonista, ideologia della competitività e della prestazione – acquisisce un linguaggio che si vorrebbe di ispirazione cattolica e che è invece, caricatura del fondamentalismo cristiano. Scandalizza che la Chiesa ci caschi. Basterebbe ad evitare l’errore , considerare l’empietà delle parole del premier ( Eluana può “fare figli” ). Quale idea materialistico-volgare della maternità coltiva quell’uomo?
Documenti
IL COMUNICATO DEL QUIRINALE
Si rende noto il testo integrale della lettera che il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha inviato al Presidente del Consiglio dei Ministri, Silvio Berlusconi, precedentemente alla approvazione da parte del Consiglio dei ministri di un decreto legge in relazione al caso Englaro
“Signor Presidente, lei certamente comprenderà come io condivida le ansietà sue e del Governo rispetto ad una vicenda dolorosissima sul piano umano e quanto mai delicata sul piano istituzionale. Io non posso peraltro, nell’esercizio delle mie funzioni, farmi guidare da altro che un esame obiettivo della rispondenza o meno di un provvedimento legislativo di urgenza alle condizioni specifiche prescritte dalla Costituzione e ai principi da essa sanciti. I temi della disciplina della fine della vita, del testamento biologico e dei trattamenti di alimentazione e di idratazione meccanica sono da tempo all’attenzione dell’opinione pubblica, delle forze politiche e del Parlamento, specialmente da quando sono stati resi particolarmente acuti dal progresso delle tecniche mediche. Non è un caso se in ragione della loro complessità, dell’incidenza su diritti fondamentali della persona costituzionalmente garantiti e della diversità di posizioni che si sono manifestate, trasversalmente rispetto agli schieramenti politici, non si sia finora pervenuti a decisioni legislative integrative dell’ordinamento giuridico vigente. Già sotto questo profilo il ricorso al decreto legge – piuttosto che un rinnovato impegno del Parlamento ad adottare con legge ordinaria una disciplina organica – appare soluzione inappropriata. Devo inoltre rilevare che rispetto allo sviluppo della discussione parlamentare non è intervenuto nessun fatto nuovo che possa configurarsi come caso straordinario di necessità ed urgenza ai sensi dell’art. 77 della Costituzione se non l’impulso pur comprensibilmente suscitato dalla pubblicità e drammaticità di un singolo caso. Ma il fondamentale principio della distinzione e del reciproco rispetto tra poteri e organi dello Stato non consente di disattendere la soluzione che per esso è stata individuata da una decisione giudiziaria definitiva sulla base dei principi, anche costituzionali, desumibili dall’ordinamento giuridico vigente. Decisione definitiva, sotto il profilo dei presupposti di diritto, deve infatti considerarsi, anche un decreto emesso nel corso di un procedimento di volontaria giurisdizione, non ulteriormente impugnabile, che ha avuto ad oggetto contrapposte posizioni di diritto soggettivo e in relazione al quale la Corte di cassazione ha ritenuto ammissibile pronunciarsi a norma dell’articolo 111 della Costituzione: decreto che ha dato applicazione al principio di diritto fissato da una sentenza della Corte di cassazione e che, al pari di questa, non è stato ritenuto invasivo da parte della Corte costituzionale della sfera di competenza del potere legislativo. Desta inoltre gravi perplessità l’adozione di una disciplina dichiaratamente provvisoria e a tempo indeterminato, delle modalità di tutela di diritti della persona costituzionalmente garantiti dal combinato disposto degli articoli 3, 13 e 32 della Costituzione: disciplina altresì circoscritta alle persone che non siano più in grado di manifestare la propria volontà in ordine ad atti costrittivi di disposizione del loro corpo. Ricordo infine che il potere del Presidente della Repubblica di rifiutare la sottoscrizione di provvedimenti di urgenza manifestamente privi dei requisiti di straordinaria necessità e urgenza previsti dall’art. 77 della Costituzione o per altro verso manifestamente lesivi di norme e principi costituzionali discende dalla natura della funzione di garanzia istituzionale che la Costituzione assegna al Capo dello Stato ed è confermata da più precedenti consistenti sia in formali dinieghi di emanazione di decreti legge sia in espresse dichiarazioni di principio di miei predecessori (si indicano nel poscritto i più significativi esempi in tal senso). Confido che una pacata considerazione delle ragioni da me indicate in questa lettera valga ad evitare un contrasto formale in materia di decretazione di urgenza che finora ci siamo congiuntamente adoperati per evitare”.
POSCRITTO – Con una lettera del 24 giugno 1980, il Presidente Pertini rifiutò l’emanazione di un decreto-legge a lui sottoposto per la firma in materia di verifica delle sottoscrizioni delle richieste di referendum abrogativo; il 3 giugno 1981, sempre il Presidente Pertini, chiamato a sottoscrivere un provvedimento di urgenza, richiese al Presidente del Consiglio di riconsiderare la congruità dell’emanazione per decreto-legge di norme per la disciplina delle prestazioni di cura erogate dal Servizio Sanitario Nazionale. Nel caso specifico, uno degli argomenti addotti dal Capo dello Stato consisteva nel rilievo della contraddizione tra la disciplina del decreto-legge emanando e “un indirizzo giurisprudenziale in via di definizione”; con lettera 10 luglio 1989 al Presidente del Consiglio De Mita, il Presidente Cossiga manifestò la sua riserva in ordine alla presenza dei presupposti costituzionali di necessità e urgenza ai fini dell’emanazione di un decreto-legge in materia di profili professionali del personale dell’ANAS e affermò: “Ritengo, pertanto, che, allo stato, sia opportuno soprassedere all’emanazione del provvedimento, in attesa della conclusione del dibattito parlamentare sull’analogo decreto relativo al personale del Ministero dell’interno”; in quella stessa lettera e successivamente nella lettera al Presidente del Consiglio Andreotti del 6 febbraio 1990, il Presidente Cossiga richiamò all’osservanza delle specifiche condizioni di urgenza e necessità che giustificano il ricorso alla decretazione di urgenza, ritenendo legittimo da parte sua – in caso di non soddisfacente e convincente motivazione del provvedimento – il puro e semplice rifiuto di emanazione del decreto legge; con un comunicato del 7 marzo 1993, il Presidente Scalfaro, in rapporto all’emanazione di un decreto-legge in materia di finanziamento dei partiti politici invitò il Governo a riconsiderare l’intera questione, ritenendo più appropriata la presentazione alle Camere di un provvedimento in forma diversa da quella del decreto-legge.
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“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana “
Costituzione articolo 32
“ L’interruzione di procedure mediche sproporzionate rispetto ai risulti attesi può essere legittima: in tal caso si ha rinuncia all’accanimento terapeutico. Le decisioni vanno prese dal paziente o da coloro che ne hanno legalmente il diritto”
Catechismo della Chiesa cattolica articolo 2278
LA NUTRIZIONE ARTIFICIALE È “TERAPIA MEDICA”