Lezione di Franco Sbarberi
La mentalità totalitaria e il principio di responsabilità individuale
All’inizio del Visconte dimezzato Italo Calvino osserva che “nulla piace agli uomini quanto avere dei nemici e poi vedere se sono proprio come ci s’immagina”. La mia impressione è un’altra: chi ama avere nemici è più interessato ai fantasmi che crea, perché gli danno un’identità per opposizione, che a verificarne la consistenza reale. In questo modo di pensare, ciò che conta è fissare fortezze ideologiche, ritratti caricaturali e feticci su cui scaricare la propria avversione e quella del proprio gruppo. “Le ideologie identificano, e, identificando, danno esistenza politica a chiunque si senta o si pensi sicuro e protetto dentro la finzione di un gruppo più o meno vasto”. Ma il Novecento non è stato tanto il secolo delle ideologie, perché esse sono nate in simbiosi con la modernità; quanto il secolo delle ideologie estreme, tese a vanificare i principi e le regole della democrazia costituzionale mediante la progettazione delle dittature totalitarie. E ai militanti delle ideologie totali è stata riservata quella che Bauman ha chiamato l'”immortalità per delega”, ossia il dissolvimento della personalità e della moralità individuale attraverso la celebrazione e la sopravvivenza di gruppo. ‘idea che la politica sia l’espressione di un conflitto totale e che possa risolversi soltanto con la distruzione della parte avversa è stata espressa nella forma più compiuta, com’è noto, da Carl Schmitt. Hobbes aveva concepito la politica come una riduzione contrattata delle ostilità insite nella natura ferina dell’uomo. “La specifica distinzione politica alla quale è possibile ricondurre le azioni e i motivi politici – scrive invece Schmitt – è la distinzione di amico (Freund) e nemico (Feind)”. Per nemico si deve intendere non l’avversario o il concorrente della tradizione liberale, ma l’hostis pubblico – “qualcosa d’altro e di straniero” – che deve attendersi la “possibilità reale dell’uccisione fisica”. A ragione Zeev Sternhell ha recentemente collegato la riflessione schmittiana sulla politica alla terza ondata anti-illuministica manifestatasi all’inizio del XX° secolo (e in particolare a Barrés, la figura più eminente). , sia nell’estrema destra che nell’estrema sinistra il proposito di crearsi un nemico assoluto e di esasperare le ostilità nei suoi confronti non è mai apparso legato a una visione positiva della conflittualità sociale, ma all’idea che si tratti di una degenerazione patologica, di una malattia mortale da estirpare. Così, mentre la mentalità totalitaria di sinistra ha inseguito l’utopia di una società armonica attraverso la forzatura preliminare della lotta di classe, la mentalità totalitaria
I. Calvino, Il visconte dimezzato, Oscar Mondadori, Milano 2002, p. 10.
L. Ornaghi, Un secolo smisurato. Gli eccessi della politica e la politica come eccesso, in AA.VV., Novecento: un secolo innominabile. Idee e riflessioni, Marsilio, Padova 1998, p. 46.
C. Schmitt, Il concetto di politico, in Id., Le categorie del politico, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972, pp. 108, 112, 116.
di destra ha preteso di costruire una comunità corporata attraverso l’uso permanente di uno stato autoritario.
Giovanni Gentile e Alfredo Rocco tragedia della Grande Guerra e l’Ottobre rosso avevano contribuito a creare anche in Italia un clima di forte eccitazione spirituale, soprattutto tra gli intellettuali. Questo aspetto era stato acutamente colto sin dal 1920 da Croce: “Prima ancora che la guerra si combattesse nelle trincee e sui campi – egli osserva – era stata preparata e combattuta nelle menti dei pensatori, dei quali forse la gente non si accorge, solo perché di solito non si occupa dell’aria che respira”. A poco erano servite le riflessioni dissacranti di alcune grandi personalità. Pur avendo appoggiato inizialmente l’intervento delle Potenze centrali, ad un anno dall’inizio dal conflitto Freud aveva tratto questa conclusione inequivoca: “Il privato cittadino ha modo durante questa guerra di persuadersi con terrore di un fatto che forse già in tempo di pace aveva intuito: e che cioè lo stato ha interdetto al singolo l’uso dell’ingiustizia, non perché intenda sopprimerla, ma solo perché vuole monopolizzarla come il sale e i tabacchi”. L’uso sistematico della violenza generalizzata nella guerra di trincea suggerirà pochi anni dopo all’ex ufficiale dell’esercito austro-ungarico Robert Musil una conclusione altrettanto amara: “Eravamo dei cittadini laboriosi, siamo diventati degli assassini, dei macellai, dei ladri, degli incendiari”.
Da destra, la critica più radicale all’individualismo liberaldemocratico verrà da Gentile e trasmigrerà poi in molte riviste di area fascista impegnate a giustificare la costruzione dello stato totalitario. Peraltro, il Gentile mistico dell’unità del corpo sociale e dell’onnipotenza dello stato è teoricamente e politicamente maturo prima dell’incontro con Mussolini. E anche il rifiuto sprezzante della democrazia e del socialismo (intesi come sinonimi di materialismo individualistico) e l’esaltazione del principio gerarchico e della guerra tra le nazioni sono motivi già presenti nel periodo bellico e postbellico. La “nuova Italia” nasce per Gentile sui campi di battaglia, ma si rafforza nella “guerra incessante” della vita. Mentre la conflittualità sociale nasce e si esaspera perché gli uomini e i gruppi sociali scambiano il loro lato empirico e la materialità degli interessi che li dividono con la manifestazione del volere universale. Ecco quanto scrive nel gennaio del 1915, a tutela della pace sociale: “uno Stato c’è, e una qualunque legge, in cui la forza dello Stato si esplica, ha vigore, in quanto il conflitto dei partiti e tutti i conflitti interni della comunità nazionale si riconciliano perennemente nella volontà comune, in cui si attua l’individualità nazionale”. Cattolici e socialisti, liberali e democratici, legati a programmi “negativi” e unilaterali,
B. Croce, L’efficacia politica della filosofia, in Id., Pagine sparse, II, Laterza, Bari 1960, p. 335.
S. Freud, Il disagio della civiltà e altri saggi, Boringhieri, Torino 1977, p. 39; il corsivo è mio.
R. Musil, Sulla stupidità e altri scritti, Milano 1986, p. 104.
hanno lasciato “senza presidio” il popolo che combatte. Non meno nocivi della spia, e variamente individuati in tutte le forze politiche moderate e di sinistra, il pacifista, l’intellettuale critico, il disfattista e l’agitatore sociale sono additati da Gentile come i “nemici interni” da denunciare e combattere. Poi, in virtù dell’antica credenza “nello Stato forte e nello Stato concepito come realtà etica”, nel maggio del 1923 Gentile si iscrive al partito fascista, convinto che quei principi siano rappresentati ormai soltanto da Mussolini. Fatta questa opzione politica, il filosofo applicherà allo stato fascista definizioni e concetti che aveva mutuato in precedenza dalla scuola hegeliana di Napoli. Lo stesso farà con il liberalismo, disinvoltamente identificato prima con lo stato etico, poi con lo “Stato etico del fascista”.
Anni fa Charles S. Maier ha sostenuto che, nel periodo compreso tra la grande guerra e la prima metà degli anni venti, in alcuni paesi europei come l’Italia, la Francia e la Germania si impone la politica “corporatista”, ossia una pratica di “contrattazione continua” fra i grandi interessi organizzati (industriali, agrari, sindacati) mediata e coordinata dallo stato. Tutti i gruppi coinvolti in questo processo di “rifondazione” delle leggi della convivenza civile in Europa concordano nel frenare i conflitti sociali e la mobilitazione politica delle masse. Ma gli obiettivi specifici delle singole parti appaiono alquanto diversi: i socialisti e i sindacalisti rivoluzionari sperano di promuovere un’esperienza di autogoverno industriale; i corporatisti di destra tentano di introdurre nuove gerarchie attraverso una società di ordini sancita dalla legge; gli industriali e i tecnici si dichiarano disposti a rinunciare agli interessi di classe immediati in nome dell’efficienza aziendale e di più elevati livelli di produttività. In sostanza, mentre le pratiche corporatiste avviano ovunque forme di integrazione della classe operaia organizzata in un sistema di contrattazione nazionale e di relativa programmazione dell’economia coordinate dallo stato, la soluzione corporativo-fascista non è una scadenza inevitabile per tutti i paesi europei, ma solo una possibile scelta di alcuni di essi, legata a motivi prevalentemente interni. questa analisi è corretta, come personalmente ritengo, uno dei costruttori più lucidi della variante reazionaria del corporatismo italiano è senz’altro Alfredo Rocco. La storia europea del Settecento e dell’Ottocento, nella sua interpretazione, è interamente segnata dalla “grande tragedia tra l’individuo e la collettività”, ovvero dall’alternarsi ciclico di periodi di disgregazione individualistica e di coesione organica. Nel corso del Novecento, il nazionalismo prima e il fascismo dopo hanno rappresentato sia il ripristino dell’ordine e dell’autorità dello stato, messi in crisi dalle lotte sociali, sia la rivincita della dottrina “organica e storica” contro quella “atomistica e meccanica” del pensiero liberale, democratico e socialista. Il motivo centrale del Manifesto nazionalista del 1918 – richiamato più volte negli scritti di Mussolini – è proprio la polemica contro
G. Gentile, Guerra e fede, Ricciardi, Napoli 1919, pp. 27, 79-83, 105-109.
G. Gentile, Che cosa è il fascismo. Discorsi e polemiche, Vallecchi, Firenze 1925, pp. 10-12, 36.
l'”individualismo dissolvente” della tradizione liberaldemocratica, che ha tentato di delegittimare la lotta imperialistica tra gli stati in nome dell’eguaglianza e della pace perpetua tra i popoli. Ma alla teoria dei diritti dell’uomo dei costituenti francesi e dei democratici del ventesimo secolo il movimento nazionalista ha opposto a livello internazionale l’eterna legge della guerra tra gli stati e sul piano interno la “disciplina delle disuguaglianze”, il principio gerarchico e il governo dei più capaci, ossia di coloro che risultano tali “per tradizione, per cultura, per posizione sociale” (Manifesto, in “Politica”, N° 1, 15 dicembre 1918, pp. 10-11). Il modello antidemocratico che ha in mente Rocco è quello protezionistico-nazionalista dei grandi cartelli tedeschi, dove produttori e consumatori, in attesa di combattere per la Nazione, solidarizzano insieme come “un fascio di volontà superiormente disciplinate” e come “un blocco granitico di energie umane che nessuna forza vale a smuovere” (Il Nazionalismo economico. Relazioni al III Congresso dell’Associazione Nazionalista, Neri, Bologna 1914, pp. 54, 58, 37).
Il ritorno al principio di responsabilità individuale mito del “fascio di volontà superiormente disciplinate”, sull’idea di “massa” e sullo stato etico farà viva luce, nel 1939, la mente dissacrante di Carlo Levi, che anticipa tematiche e riflessioni care al Canetti di Masse e potere: soprattutto per l’antitesi tra “pulsioni” di massa e “pulsioni” della personalità individuale. “I panettieri – scrive Levi – chiamano massa la pasta, che attende di essere divisa in parti e di diventare pane nel forno; i fonditori, il metallo fuso, che aspetta di essere colato nel suo stampo; i fisici, quello che in un corpo non è forma, né grandezza, né qualità, ma materialità indeterminata”. Anche nel campo dei rapporti umani massa è un insieme privo di identità strutturata: non “il popolo, e neanche la sua parte più bassa, la plebe”, bensì la folla, “che cerca, con l’angoscia del muto, di esprimersi e di esistere”. Un momento generativo della massa è la dichiarazione di guerra, che fa regredire gli individui a uno stadio di indifferenziazione primitiva e di ostilità animalesca. A quel punto, “ogni uomo – continua Levi – esce dalla sua casa, abbandona un suo mondo unico, si identifica con tutti gli uomini e, perduta ogni personalità, si riduce a quello che è comune e indistinto: il sangue e la morte”. e guerra, tuttavia, non esauriscono il meccanismo perverso della perdita della coscienza individuale e della fiducia nella ragione. La figura sacrale dello stato è l’idolo estremo a cui viene immolato l’uomo incapace di pensare da solo e di scegliere un progetto di vita autonomo. “Il terrore della passività assoluta e indistinta, e il terrore della libertà, generano, da parti opposte, la stessa religione: lo stato di massa”. Come ogni idolo, lo stato esige fedeltà assoluta e sacrifici costanti: l’esclusione della parola libera e il sangue dei reprobi. Da un lato, precetti fermi ed elementari, come credere, obbedire, combattere, oppure Ein Volk, ein Reich, ein Führer; dall’altro,
l’individuazione e l’eliminazione di un soggetto avverso, perché “l’idolo statale può reggersi soltanto finché avrà di fronte a sé uno straniero: un nemico necessario, che dovrà essere continuamente espulso e continuamente ritrovato, una vittima provvidenziale”.
Una cultura fortemente anti-illuministica e imbevuta di neoidealismo e di principi gerarchici e autoritari come quella affermatasi nel primo ventennio del secolo e trasmigrata poi nel fascismo poteva essere avversata soltanto denunciando preliminarmente la guerra contro la persona iniziata dal regime di Mussolini e chiarendo poi le implicazioni etico-politiche della democrazia come forma di governo. Sappiamo che tutte le forze dell’antifascismo, quando fu varata la nuova carta costituzionale, sottolinearono il valore centrale della persona umana. La via seguita consistette nel coniugare libertà ed eguaglianza, motivi individualistici ed esigenze di solidarietà sociale non nelle forme palingenetiche di una società comunista del futuro, come aveva proposto Gramsci, ma nei modi possibili di una costituzione democratica del presente. , ieri come oggi, è proprio questo concorde richiamo al valore della “persona umana” che fa problema. L’individuo interpretato come persona ha una fondazione metafisica, oppure si costituisce nella trama dei rapporti sociali, giuridici e politici? Tra i teorici del liberalsocialismo, ad esempio, echi cristiani sono indubbiamente presenti nell’etica “altruistica” di Calogero e una visione religiosa della persona è vivissima in Aldo Capitini, che però delineava una religione dell’umanità senza l’intermediazione determinante di un’istituzione ecclesiastica. Ma nell’Italia degli anni quaranta ebbe una forte influenza anche il personalismo cattolico di La Pira e di Dossetti, legato alla lezione di Mounier e di Maritain. Come ebbe a dire La Pira alla Costituente: “lo Stato per la persona e non la persona per lo Stato”. Sennonché, La Pira e Dossetti accoglievano dalla tradizione cattolica del “bene comune” e dalla dottrina sociale di Giuseppe Toniolo anche “la concezione organica della società che vede frapposte organicamente e progressivamente fra i singoli e lo Stato le comunità naturali attraverso le quali la personalità umana ordinatamente si svolge”. Principalmente: la famiglia, fondata sul matrimonio indissolubile, le comunità professionali e la Chiesa, espressioni gerarchicamente ascendenti “del Corpo mistico che stabilisce fra i credenti un principio organico di comunione e di solidarietà soprannaturale”. Argomentazioni, come si vede, che si fondano su pretese giusnaturalistiche e che sono state riproposte anche successivamente da
C. Levi, Paura della libertà, in Id., Scritti politici, a cura di D. Bidussa, Einaudi, Torino 2001, pp. 189,-90, 191, 193, 197.
Riprendo questa citazione di Giorgio La Pira all’Assemblea costituente da P. POMBENI, Individuo/persona nella Costituzione italiana. Il contributo del dossettismo, in “Parolechiave”, N° 10-11, 1996, p. 207; ma sulle tesi personaliste di La Pira e di Rossetti si vedano tutte le pp. 202-218.
G. LA PIRA, Architettura dello stato democratico, Edizioni Servire, Roma s.d., p. 38.
una parte della gerarchia cattolica in esplicita polemica con le istanze laiche ed egualitarie dell’etica democratica.
Interessato a sottolineare le convergenze politiche che si erano verificate tra cattolici e comunisti non solo in tema di diritti sociali ma anche sulla questione delicata dei Patti Lateranensi, durante i lavori della Costituente Togliatti si limiterà a commentare in questi termini le venature organicistiche del personalismo di La Pira: “Perché questa concezione avrebbe dovuto fare ostacolo? Al contrario, vi era qui un altro punto di confluenza della nostra corrente, socialista e comunista, con la corrente solidaristica cristiana. Non dimenticate infatti che socialismo e comunismo tendono a una piena valutazione della persona umana […] che noi riteniamo non possa essere realizzata se non quando saranno spezzati i vincoli della servitù economica”. effetti, accenti decisamente organicistici si trovano anche in alcuni saggi degli anni quaranta di Galvano della Volpe, inneggianti all’etica marxista del lavoro. L’autore polemizza contro le “anime belle” del personalismo platonico-agostiniano, poi di Rousseau e di Kant, fino alle “contaminazioni” eclettiche social-liberali. Ma in nome di che cosa? L’individuo dellavolpiano si fa persona quando si risolve compiutamente nell’organizzazione sociale del comunismo, nella pratica dello stakhanovismo e nella libertà “sostanziale” promessa dallo stato sovietico. In una risposta del 4 gennaio 1948 a Della Volpe, che aveva rivendicato “un’etica senza apriori di sorta” in nome della “socialità del lavoro”, Bobbio solleva interrogativi decisivi: “L’affermazione del valore della persona deve ubbidire, mi pare, all’esigenza […] che l’uomo sia rispettato come tale indipendentemente dalle sue caratteristiche biologiche, fisiche, sociali ecc. […] Mi domando: la riduzione della persona a lavoro […] serve a questo scopo? Non conduce invece alla conseguenza catastrofica, per la società civile, che l’uomo inadatto al lavoro (i deboli, i malati, gli abulici ecc.) non debbano essere rispettati? E tra il non rispetto e l’eliminazione violenta non corre, come si è visto, un brevissimo, troppo breve, tratto? Che l’uomo trovi nel lavoro l’espressione della propria personalità in quanto personalità sociale, implica che la trovi soltanto nel lavoro? […] Non rischia questo uomo totale, onnilaterale, ridotto al lavoro, di essere un uomo parziale, unilaterale? Qui mi pare salti fuori ancora una volta il pregiudizio economicistico del filosofo dell’economia, Carlo Marx, cioè una visione ristretta dell’uomo, una ipostatizzazione dell’Homo faber che come
Sui contenuti minimi dell’ethos democratico si vedano le recenti puntualizzazioni di G. ZAGREBELSKY in Imparare democrazia, Einaudi, Torino 2007, soprattutto alle pp. 15-38.
P. TOGLIATTI, Discorso tenuto all’Assemblea costituente nella seduta dell’11 marzo 1947, in Id., Discorsi parlamentari (1946-1951), I, Roma 1984, p. 63.
G. DELLA VOLPE, La libertà comunista. Saggio di una critica della ragion “pura” pratica, Messina 1946. Le tesi di Galvano della Volpe sul concetto marxiano di persona sono attentamente ricostruite da C. PIANCIOLA nel saggio Il singolo e la persona. Discussioni sull’esistenzialismo nella cultura filosofica italiana, in “Parolechiave”, 1996, N° 10-11, pp. 261-81.
ipostatizzazione vale scientificamente quanto l’ipostatizzazione dell’Homo sapiens della metafisica tradizionale”.
Rispetto alla riflessione cattolica e marxista, il personalismo laico di origine liberalsocialista batte dunque altre strade. “Tenendo fermo il punto che persona significa individuo innalzato a valore – scrive ancora Bobbio- la via da seguire è quella di trovare il valore dell’individuo nella storicità della sua esistenza, che è esistenza con gli altri, di giungere pertanto ad una fondazione non più metafisico-teologica, ma storico-sociale della persona”. Un punto d’approdo analogo si trova anche nei saggi di Calamandrei del 1945. Essi nascono dalla convinzione che “la libertà di uno dipende scambievolmente dalla libertà degli altri, e che l’autonomia propria non può essere assicurata che dal rispetto, che è limitazione reciproca, delle autonomie altrui. Il principio centrale della democrazia più che nella libertà sta nella solidarietà: nella ‘interdipendenza’ piuttosto che nella indipendenza”. dunque, per garantire pienamente il principio di legalità, non basta, per Calamandrei, che il potere sia conferito dalla legge (governo sub lege). Questa legittimazione formale è possibile anche negli stati assoluti, confessionali e autoritari. E’ necessario, altresì, che la legge limiti il potere nella forma e nei contenuti (governo per leges). Ecco perché negli stati costituzionali moderni la “certezza del diritto” è intesa sia come tutela delle libertà individuali sia come limite all’autorità politica, secondo gli insegnamenti di Montesquieu e di Beccaria. Lecaldano, pur distinguendo tra filosofia cristiana e etica kantiana, ha avanzato dubbi sull’idea di individuo come persona morale, ritenuta vaga e inguaribilmente razionalistica. Ma c’è chi ha obbiettato, con buone argomentazioni, che la nozione di persona presente nella nostra Costituzione tutela meglio di altre il “diritto alla libera formazione ed espressione della propria soggettività entro il contesto delle relazioni sociali”. In effetti, si pensi all’articolo 2 sui diritti inviolabili dell’uomo; all’articolo 3 che tutela la “pari dignità sociale” di tutti i cittadini e la loro eguaglianza davanti alla legge “senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opnioni politiche, di condizioni personali e sociali” e al secondo comma dello stesso articolo. Esso ripropone quasi alla lettera un’indicazione di Calamandrei, nella quale si fa obbligo allo stato di
La lettera di N. Bobbio è contenuta nel suo saggio Postilla a un vecchio dibattito, da ultimo ristampata in N. BOBBIO, La mia Italia, a cura di P. Polito, Passigli, Firenze 2000, pp. 259-60.
N. BOBBIO, La filosofia del decadentismo, Chiantore, Torino 1944, p.119.
P. CALAMANDREI, Costituente italiana e federalismo europeo, in Id., Scritti e discorsi politici, a cura di N. Bobbio, I, 2, La Nuova Italia, Firenze 1966, p. 414.
E. LECALDANO, Individuo, persona, diritti: quale base razionale per l’etica?, in “Iride”, N° 9, 1992, pp. 115-18.
P. CRISTOFOLINI, Interventi, Ivi, p. 126.
tutelare i diritti al lavoro, alla casa e all’istruzione per “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che si frappongono alla libera espansione morale e politica della persona umana”.
Momento di incontro ideale tra le libertà fondamentali del soggetto – sia in accezione “negativa” che “positiva” – questa versione dell’ individualismo etico vuole dunque essere una proiezione consapevole degli individui nel mondo esterno e il richiamo a un ventaglio di diritti sociali a prescindere dalle diverse caratteristiche e provenienze degli individui che chiedono tutela. Sbarberi
P. CALAMANDREI, L’avvenire dei diritti di libertà, in Id., Costruire la democrazia, con un saggio introduttivo di P. Barile, Vallecchi, Firenze 1995, p. 144.
Autore: Franco Sbarberi