Nel Settecento il filosofo David Hume, per valutare la razionalità degli uomini nel rapporto con la società ed il bene comune, fece questo ragionamento.
Ci sono due contadini. Uno ha un campo, in cui il grano deve essere raccolto il giorno seguente; il vicino ha, invece, il grano che va raccolto quel giorno stesso. Ci vogliono due persone per raccogliere il grano dai due campi. E la logica vorrebbe che i due si mettessero insieme: oggi io lavoro per te, domani tu lavori per me, cosí tutto il grano che ha prodotto la nostra terra lo vendiamo, con un reciproco guadagno che andrà ad arricchire la comunità familiare e quella sociale in cui noi viviamo. Invece il primo contadino dice: “Se io lo aiuto, quello non mi riconoscerà l´aiuto datogli. Non avró nessun tipo di feed-back”. Altrettanto pensa l´altro. Alla fine la metà del raccolto va in malora, perché non c´è la forza-lavoro necessaria.
Il ragionamento serví a Hume per dimostrare che non vi puó essere comunità civile se gli uomini non hanno tra loro una fiducia reciproca.
In tempi a noi piú vicini, negli anni Cinquanta del Novecento, il sociologo americano Edward Banfield venne in Italia per studiare la comunità contadina di Montegrano in Basilicata. E ritrovó in essa rapporti interpersonali analoghi a quelli riportati nel ragionamento del pensatore scozzese. Nella sua ricerca Banfield scoprí anche che la sfiducia primordiale del nostro Sud non solo era espressa in numerosi proverbi (“Maledetto quell’uomo che si fida di un altro uomo”; “Non far prestiti, non far regali, non far del bene, che te ne verrà del male”; “Ognuno pensa al proprio guadagno e si gioca cosí al gabba compagno”; Quando va a fuoco la casa del vicino, porta l’acqua alla casa tua”), ma spiegava anche con sufficiente chiarezza l’arretratezza e la povertà del Mezzogiorno d’Italia. Povertà e arretratezza che lo studioso faceva risalire alla “incapacità degli abitanti di far fronte comune per il bene di tutti, di agire insieme per qualsivoglia fine che trascenda l’interesse materiale immediato del nucleo familiare”.
Banfield conió l’espressione “familismo amorale” per definire l’ethos degli Italiani del Sud (etichetta che il linguista Raffaele Simone ha cosí tradotto: “Quel che importa è tenere ordine negli affari di famiglia: difendersi, espandersi, proteggersi; il resto del mondo puó anche andare in malora”).
L’espressione “familismo amorale” ha una connotazione non positiva, ma spiega con intelligente lucidità il risultato storico di secoli di feudalesimo, di sfruttamento, di servilismo e oppressione, da cui poteva nascere solo il risentimento.
Il risentimento è l’esatto contrario della fiducia, giacché è la reazione naturale di chi sospetta di tutto e di tutti, l’atteggiamento di chi è spinto anche a preferire soluzioni autoritarie e conservatrici.
Il familismo amorale non coincide (né lo potrebbe) con la moderna concezione democratica dello Stato e neppure con il semplice Stato in sé. Radicato profondamente nell’intera società italiana contemporanea (anche il Settentrione d’Italia è ormai quasi del tutto “meridionalizzato”), esso considera lo Stato e le leggi alla stregua di “nemici” da soggiogare.
Mostruosa tenia, che riproduce incessantemente la propria nefasta struttura, esso si proietta e distende negli ambiti piú disparati: le dinastie professionali (chirurghi, giornalisti, baroni universitari, diplomatici, alti burocrati), le famiglie politiche (deputati e senatori che si tramandano i posti), le famiglie mafiose, i comitati di affari.
Sarebbe ora che gli Italiani uscissero, finalmente, da tale soffocante spirale, la quale continua a impedire alla parte sana della comunità nazionale di aspirare a livelli di vita modernamente civili.
Forse avremmo tutti bisogno, per l’auspicata liberazione, di fare nostra una riflessione dell’illuminista Cesare Beccaria: “Lo spirito di famiglia è uno spirito di dettaglio e limitato ai piccoli fatti; ad esso è opportuno opporre lo spirito regolatore delle repubbliche, padrone dei princípi generali”.
Credo che dovremmo tutti perseguire, senza gretti egoismi, l’obiettivo sublime della “intelligenza civica” suggerito dal nonno di Alessandro Manzoni.
(“Eventi”, febbraio 2006)
VINCENZO CUTOLO