Gennaro Carillo, AGELADAS
Il giovanissimo poeta presentato dall’ARCI
Sabato 23 novembre, a Scafati, la locale sezione dell’ARCI ha presentato nel teatro don Bosco, gremitissimo, il libro di Gennaro Carillo, Ageladas, pubblicato da Tempi Moderni con prefazione di Luigi Compagnone.
La professoressa Redenta Formisano ha aperto la manifestazione sottolineando il ruolo dell’ARCI a Scafati: un ruolo di innovazione e promozione culturale, teso a scuotere, a riscoprire la misura umana dell’antica provincia. “Alla crisi di questa città di provincia, alle sue contraddizioni – ha detto – i versi di Carillo sono intimamente connessi”: tuttavia essi non sono versi di provincia, ma parole–atomi di un dolore non statico, lamenti di un giovane capace di collegarsi alla frantumazione del mondo che corre verso la propria eclissi.
Gli attori Silvana Sorrentino e Giuseppe Basta, del Trademarkteatro, hanno letto alcune poesie del libro e sono quindi intervenuti il prof. Raffaele Urraro, docente-poeta, e il prof. Sebastiano Martelli dell’Università di Salerno.
Il prof. Urraro ha definito i versi di Carillo “flashes, illuminazioni”, dove l’io è al centro tra parole e silenzi, tuttavia non chiuso in una campana di vetro. I frammenti – egli ha detto – scandiscono il dolore secondo il ritmo del blues, morte e vita sono colte in dimensione più prolungata e la poesia è
stravolgimento della fantasia del lettore. Dai dattili e dalle assonanze traspare inoltre una attenta cultura classica, presente pure nel misurato controllo poetico. “Anche Ungaretti – ha concluso Urraro – cominciò con la parola per poi arrivare alla frase. Attendiamo da Carillo altre prove”.
Il prof. Martelli ha analizzato le liriche di Carillo partendo invece dal bilancio che Berardinelli, anni fa, fece del ventennio di poesia 1955–1975. Il critico – ha ricordato Martelli – scrisse che il decennio che si apriva, dopo i terrorismi della Neoavanguardia, vedeva la poesia come mezzo di comunicazione di scrittori “diversi” (nel senso della “poesia fatta da tutti” di cui parlò Lautréamont) e passaggio attraverso tutte le esperienze in cui la parola si rinnovava nel magma dell’esistenza. Il testo commentava le interviste, apparse sulla stessa pagina, sia con Pericle e Josiane Odierna, sia con i genitori di lei. Quella di Gerry Carillo – ha proseguito Martelli – è poesia che rimanda a una sorta di neo-ermetismo, per la tecnica ungarettiana scarnificante: poesia del bivio adolescenziale (dove l’utopia nasce dalla inerte, degradata periferia urbana e dal conflitto tra ventre caldo della famiglia e quello che si sta ricercando); poesia delle esplosioni adolescenziali e dell’amore dannato (dove la figura femminile accompagna il poeta nella landa desolata, contaminandosi anch’essa nel ghiaccio del vivere della condizione esistenziale urbana); poesia delle mutazioni antropologiche delle nuove generazioni e del diverso rapporto dei giovani con la realtà. Tra le pagine maggiori del libro – ha concluso Martelli – la più interessante è Bambino mai sarò uomo, dove in primo piano sono la finzione del gioco (con un fratello mai avuto), il rifiuto di divenire adulto, la speranza di una figura accanto, che renda accettabile il vivere.
Una testimonianza-omaggio ha pure recato al giovane poeta il Preside Francesco D’Avino, che dirige il Liceo di Sarno dove Gerry ha compiuto gli studi licenziandosi col massimo dei voti (e un anno di anticipo). La poesia di Carillo – ha detto D’Avino – è “suggestione fonica, suono, baleno, luccichio, suggestione ritmica, risonanza del nulla e delle sue angosce”, dove Ageladas non è più un uomo ma un simbolo della disintegrazione del reale. Il giovane poeta – ha concluso D’Avino – non ha inteso parlare con gli altri, ma conoscere se stesso “ed ha così superato il primo, vero esame della sua vita”.
Alla fine è intervenuto anche il poeta diciottenne scoperto da Compagnone. Bello, elegante, molto loico, Carillo ha parlato della memoria. “Il mio libro – egli ha detto – è dedicato a tutti i ricordi, a tutte le persone capaci di volare, alla paura di fare e di farsi del male”. Richiamando Bréton, ha sottolineato che i ricordi sono anche bellezza e che il suo libro (“libro d’amore, ma di un amore diverso”) va più vicino alla morte che alla vita. La critica – egli ha poi detto – sostiene che i versi di Ageladas sono versi di caduta: “ma anche la caduta è bellezza, giacché essa è un piccolo volo”.
E ha ricordato Cocteau (la donna, che nella “Voce umana” dialoga col suo passato), Marquez (“l’uomo non sa più ricordare”), Compagnone (“il suo meraviglioso essere un ragazzo di 70 anni”), il regista Truffaut, il poeta negro Moloise assassinato dai bianchi in Sud Africa. La morte – egli ha insistito – non sono gli altri, come diceva Sartre: siamo anche noi. Nel mondo muoiono milioni di bambini, per inefficienza e insufficienza; muoiono i drogati; muore la bellezza di chi è costretta a prostituirsi. Bisogna ricordare tutto questo: “Nei miei versi – ha concluso Carillo – c’è forse rancore. Ma chi, come me, ha avuto tante storie, tante gioie e dolori, non può fare a meno di ricordarli”.
( InComune, novembre-dicembre 1985 )
VINCENZO CUTOLO