Animaterra di Gemma Capone (Ed. Filema, Napoli 1998, lire 20.000) è una originale opera prima – né romanzo, né saggio, né raccolta di racconti o poesie – in cui l’autrice mette insieme ricordi ed esperienze, riflessioni e commenti, emigrazione e infanzia, per rivelare – mediante la scrittura – come sia possibile ritrovare e recuperare l’identità perduta. Il libro nasce dalla memoria. Più’ di una volta l’autrice cita Pavese: “Tutto si determina nell’infanzia… a ciascuno i luoghi dell’infanzia ritornano alla memoria; in essa accaddero cose che li han fatti unici e li trascelgono sul resto del mondo con questo suggello mitico”.
Tuttavia, nel rievocare l’infanzia, la scrittrice non esprime atteggiamenti mitopoietici in cui risaltino solo le immagini liete del passato, inconsciamente scelte (e da cui resti assente ciò’ che viene rimosso), ma registra tutto: bene e male, amaro e dolce, dolore e gioia. Ritrova, infatti, nella memoria “l’eco delle parole dei giochi fatti per strada”, “l’allegro ciarlare presso una fontana”, un amore appena sbocciato, il “vagare senza meta nel vicolo”, la processione di un giorno di festa (con le arie e le romanze della musica in piazza, la folla “multicolore e chiassosa”, i fuochi d’artificio, la “palla di pezza imbottita di segatura”). Rivede i “personaggi” del suo paese: comma’ ‘Ngeleca, onnipresente e informatissima donna somigliante a un “telegiornale sempre aggiornato”; compare Carmine, protagonista imitatore-attore dei balli contadini tenuti in casa; la povera vicina, Assunta, cui morirono insieme quattro piccoli figli avvelenati dai funghi. Rivede anche l’orfanotrofio (che le segnò l’infanzia) e la cara docente bolognese Molino, maestra di morale e di vita. Rivede il suo caro padre, cavapietre, del quale ricorda gli “occhi infossati, il viso smunto consumato e pallido, la sua sofferenza” per la malattia che lo avrebbe condotto a morte prematura. Ma è soprattutto la madre, e la memoria di lei, a segnare nella scrittrice la lacerazione dell’essere e nel contempo la pace. La Capone ricorda come fu dalla madre “abbandonata, tradita, ferita”, allorché questa (vedova e senza
mezzi) sistemò lei e gli altri figli in un orfanotrofio. E rievoca il suo distacco totale da lei, fatto di vacanze trascorse a casa di una zia e di profondo disprezzo per la genitrice. Ella ammette però che la sua “eterna ricerca della perfezione” (“di dare, di essere sempre al meglio”) e il suo grande attaccamento ai due figli li deve proprio al lacerante rapporto vissuto con la “antagonista” madre. E alla fine, nella crisi esistenziale e nella memoria della morte di lei (assai toccante è la pagina che ne rievoca la riesumazione dei resti), l’autrice può finalmente riconciliarsi con colei che le diede la vita.
Il libro ben testimonia lo stato di solitudine della scrittrice, il suo “esistere” che non è “essere”. Esso evoca anche inconsce visioni, legate all’acqua: il fiume dell’infanzia, un tempo limpido e allegro, ora è infido ed oscuro nella veglia angosciosa. Lo stesso ritorno al Sud è come una “ricerca di frammenti”, che siano di aiuto a “ritrovare l’identità perduta”. Degli emigrati di prima generazione la Capone sa definire, con acume, la motivazione di fondo che ne accompagna la vita: “È il bisogno di masticare, di nutrirsi della propria cultura, per alimentare il sentimento, le tradizioni, le radici, che, come un cordone ombelicale, ci tengono uniti alla madre terra. E ci fanno sentire, in giro per il mondo, orgogliosi di essere Italiani. In fondo è voglia di ricordi”. Oppure: “… a Montreal come a Boston, a Filadelfia come a Zurigo, molti di noi, ognuno a suo modo, si portano dentro un pezzo di terra: approdo e rifugio dell’anima. Un’isola da cui, idealmente, non si è mai partiti”. Ed è proprio grazie alla “scrittura della memoria” che l’autrice (campana emigrata in Svizzera da oltre trent’anni) riesce a superare la dicotomia tra presente e passato di se stessa: tra il “paese-presente”, portatore di solitudine ontologica e di turbamento, e il “villaggio-passato”, ingentilito dall’illusione e dal pavesiano “suggello mitico”. Vorrei raccomandare questo libro, ricco di interiore peculiarità, a tutti coloro che – lontani per motivi esistenziali dalle proprie radici – non conoscono ancora la forza e il fascino sia dell’arte della scrittura faticosamente acquisita, sia dell’irresistibile, antico “amore per Itaca”.
( La Pagina, Zurigo, ottobre 2000 )
VINCENZO CUTOLO