Durante la mia infanzia la mia nonna paterna aveva l’abitudine di “incarmare” (cioè calmare) la testa a noi nipoti, quando avevamo piccole emicranie. Ogni volta che avevamo mal di testa la nonna ci faceva, infatti, sedere accanto a sé e, appoggiata una mano sulla nostra fronte, la massaggiava continuamente col pollice, descrivendovi segni di croce e bisbigliando parole incomprensibili.
L’operazione durava molti minuti e la nonna sbadigliava sovente. A fine trattamento, se gli sbadigli erano stati molti, la nonna diceva che ciaveva tolto il “malocchio”. Ricordo che le piccole emicranie sparivano, dopo quegli interventi (il che era dovuto certamente alla continua pressione esercitata dal pollice sulle nostre fronti), e che la nonna per quella sua abilità ci risultava ancora più cara.
Ho ripensato a quei riti familiari dell’infanzia mentre leggevo con attento interesse l’ultimo libro di Gaetana Mazza, I processi inquisitoriali nella diocesi di Sarno (1680–1759), pubblicato da Aracne Editrice nel dicembre 2013 con presentazione di Giovanni Romeo. E mi è venuto spontaneo osservare che, se in Italia ci fosse stata ancora l’Inquisizione, mia nonna sarebbe stata certamente accusata – sessant’anni fa – di “magia terapeutica” !
Come testimonia l’accurata pubblicazione di Gaetana Mazza (frutto di un “paziente scavo”, come scrive Romeo), quell’accusa fu rivolta a molte donne della Diocesi di Sarno nel settantennio indagato dal libro. Degli 83 processi inquisitoriali riportati dal testo ben 19 riguardano, infatti, l’accusa di “magia terapeutica”. “Magia” impiegata prevalentemente da donne del popolo su persone affette da dolori di testa, itterizia, dolori ai molari, anginaglia, dolori ai piedi o alle gambe, sofferenze varie. I rimedi “terapeutici” consistevano in segni di croce sulle parti del corpo doloranti, pronuncia di formule particolari (espresse il più delle volte mediante termini incomprensibili), pietre bagnate nell’olio, vapori prodotti da acqua e olio gettati sulla cenere del camino, pezze bagnate, foglie di sambuco. In un caso troviamo addirittura un maiale che non vuol mangiare e che viene “curato” passandogli sul dorso i pantaloni del proprietario.
Oltre a quelli per magia terapeutica il libro raccoglie anche atti di processi per blasfemia, stregoneria, abuso di cose sacramentali, apostasia, sortilegi d’amore, concubinato, induzione allo spergiuro. Di interesse particolare risultano i processi per “sollecitatio ad turpia”. Sono testimonianze di richieste di favori sessuali, fatte da frati o parroci a donne “virtuose” (che dopo averle rifiutate le denunciano agli inquisitori), oppure di confessioni di rapporti intimi avuti e poi denunciati da donne pentite che desiderano l’assoluzione.
Gli interrogatori comprendono:
- il giuramento sulle Sacre Scritture;
- la deposizione del teste, convocato dagli inquisitori (o presentatosi per sollecitazione del confessore);
- la domanda se egli è mosso da sentimenti di odio verso l’accusato o se depone per scarico della sua coscienza (“ad suam conscientiam expurgandam”);
- la domanda se egli si comunica almeno una volta all’anno e se sa scrivere.
Le domande dei giudici sono riportate in Latino; le risposte, invece, in un Italiano vicino al linguaggio parlato dagli inquisiti. Il libro è di proficua lettura, soprattutto perché riporta alla luce – tramite documenti finora inediti e sconosciuti – un importante periodo della storia del Mezzogiorno d’Italia, di cui studia una piccola comunità nel suo particolare rapporto tra mondo contadino e potere della Chiesa-Inquisizione.
La Chiesa post-tridentina aveva puntato principalmente a prevenire l’infiltrazione in Italia delle idee protestanti, del panteismo, della teoria eliocentrica, delle filosofie e delle scienze contrarie alla dottrina cattolica. Col tempo essa poi si contrappose anche a varie forme d’immoralità (dalla bestemmia al caso di preti che si servivano della confessione a scopo di seduzione), e soprattutto alla superstizione, alla magia e alla stregoneria. Nel territorio della Diocesi di Sarno – come Mazza ben sottolinea – l’Inquisizione puntò soprattutto a catechizzare le masse, ad istruire il clero ignorante, a liberare la fede dalle credenze superstiziose, a moralizzare i costumi. E per tali obiettivi fu scelta la via della minaccia di scomunica e dell’allontanamento dalla comunità della Chiesa. I verbali dei processi riportati nel libro testimoniano che il sistema funzionava. Chi aveva usufruito di una “magia terapeutica” o era stato testimone di episodi di blasfemia, stregoneria o seduzione, lo rivelava infatti puntualmente al suo parroco (in confessione), ed era poi da questo indotto a presentarsi agi inquisitori, per “purgare” la propria coscienza e poter continuare a ricevere i sacramenti. Se da una parte, quindi, la Chiesa riusciva ad esercitare un capillare controllo sul popolo dei fedeli (ricevendone, nel caso di proprietari e nobili benestanti, anche lasciti e donazioni), dall’altra i contadini e le classi umili della società erano indotti a rinunciare a credenze, consuetudini, comportamenti che – in sostanza – ne avevano sempre caratterizzato la libertà di vita. Pur di imporre la sua egemonia, la Chiesa – come già notava nel XVIII secolo lo storico Pietro Giannone – attraverso l’Inquisizione “aveva cominciato ad attribuire a quel Tribunale alcuni delitti che non meritavano un tribunale straordinario, che potevano, ben come prima, essere corretti da Tribunali ordinari”. E adduceva l’esempio delle bestemmie, qualificate dall’Inquisizione quali “ereticali” (“ancorché profferite o per cattivo abito o per iracondia o per ubriachezza o finalmente per sciocchezza ed ignoranza”).
( Facebook, gennaio 2014 )