Fra scuola, famiglia e società
I nuovi adolescenti
Ho conservato alcuni indirizzi e-mail di insegnanti e dirigenti scolastici conosciuti all’estero: educatori italiani impegnati a Zurigo, i primi; colleghi presidi o direttori didattici, i secondi, conosciuti all’Ambasciata italiana di Berna o nei corsi di formazione organizzati dal Ministero degli Affari Esteri a Firenze, a L’aquila e a Roma durante il mio settennio di servizio in Svizzera in qualità di dirigente scolastico.
Alcuni di tali amici sono ancora all’estero; altri, come me, sono rientrati in Italia per fine mandato. Di tanto in tanto ci scambiamo i saluti, le esperienze professionali, le impressioni su libri, film, fatti politici o di cronaca che colpiscono la nostra attenzione. E’ una forma di comunicazione certo sporadica, ma che tuttavia offre una qualche continuità a vecchi rapporti, a condivisioni incrociate, che Internet consente oggi a tutti coloro che non vivono nella stessa città.
Giorni fa è venuto a trovarmi a Milano, dove era di passaggio, un collega dirigente scolastico da me conosciuto nei miei anni zurighesi all’Ispettorato scolastico dell’Ambasciata di Berna, e lì varie volte incontrato, allorché egli era preside presso il Consolato italiano di un Cantone francofono della Confederazione elvetica.
Abbiamo conversato su tanti argomenti: la famiglia, i figli, i giovani, la situazione politica, l’immigrazione, la scuola, la cultura, la complessità sempre crescente della società italiana.
Abbiamo rievocato le nostre comuni esperienze all’estero e quelle attuali di dirigenti di una scuola italiana metropolitana (anche lui, come me, è impegnato in una scuola media statale di una grande città dell’Italia del nord).
Egli mi ha illustrato i bei progetti della sua scuola, il suo buon rapporto con le istituzioni (Comune, Consiglio di zona), la partecipazione dei suoi allievi a qualificanti iniziative di promozione didattica, la elevata professionalità dei suoi docenti. Io, a mia volta, gli ho parlato delle innovazioni introdotte nella mia media “Tiepolo” di Milano: il semestrale “La Voce della Scuola”, pubblicato in gemellaggio con la scuola media “Cavour” di Napoli; la disciplina autonoma “Educazione Civile”, impartita per un’ora settimanale dai docenti di Lettere e mutuata dalla proposta dell‘associazione EducaCi di Milano; il teatro didattico, realizzato insieme da docenti ed alunni.
Egli mi ha anche parlato di una recente esperienza, da cui gli è derivata grande amarezza, che da sola può costituire un paradigmatico esempio della confusione dei ruoli che oggi caratterizza il nostro Paese e della difficoltà che la scuola incontra nell’assolvere al suo ruolo istituzionale.
Riassumo in sintesi la sua esperienza. Informato da una genitrice, una extracomunitaria, che la figlia era stata oggetto in classe – presente un docente – di una aggressione da parte di un gruppo di quattro compagni (che le avevano messo fuori uso la calcolatrice e sporcato di vernice il vestito), il mio collega ha subito acquisito dal docente presente all’accaduto la formale relazione sui fatti. Quindi ha consultato informalmente gli altri docenti e, recatosi nella classe, ha interrogato sia l’allieva danneggiata, sia il gruppo responsabile dell’aggressione. Poi, seduta stante, ha sospeso dalle lezioni per due giorni i quattro alunni del gruppo (uno dei quali – ancorché indicato come partecipante al fatto sia dalla ragazza, sia dai tre compagni, sia dalla relazione del docente – aveva dichiarato di non avervi partecipato).
Il giorno dopo il mio collega ha avuto un lungo colloquio, a scuola, con i genitori dei quattro allievi, cui ha esposto (insieme al docente di Lettere della classe) la valenza educativa del provvedimento adottato.
Tuttavia dopo pochi giorni gli è pervenuta la lettera di un avvocato, il quale – per conto dei genitori dell’alunno che non aveva ammesso la sua responsabilità – gli contestava formalmente il provvedimento disciplinare (giacché adottato non da un organo collegiale, come prescrive una legge del 1998 che ha modificato le precedenti disposizioni in materia disciplinare, ma dal dirigente scolastico), dandogli cinque giorni di tempo per il riscontro. Il mio collega ha quindi esposto all’avvocato i fatti avvenuti e la opportunità della sanzione, da lui irrogata con i poteri del Consiglio di classe e con l’assenso di tutti i docenti.
Ma il legale ha impugnato il provvedimento, chiedendone l’annullamento e la revoca (la richiesta, per conoscenza, è stata inviata anche al Consiglio di classe e al Consiglio d’istituto della scuola).
Consiglio di classe e Consiglio d’istituto hanno subito confermato all’unanimità il provvedimento disciplinare, convalidandolo e ratificandolo (da notare che del Consiglio di classe fanno parte anche le madri di due dei ragazzi sospesi). Tuttavia – e qui sta l’amarezza del mio collega – nonostante la ratifica del provvedimento il legale ha presentato ricorso contro la scuola per conto dei genitori dell’alunno (il quale, per ammissione unanime dei docenti, è il leader negativo del gruppo).
Il ricorso è attualmente al vaglio del dirigente dell’Ufficio scolastico provinciale, che dovrà decidere in via definitiva sentito il parere dell’Organo di garanzia.
L’esperienza narratami dal collega mi ha indotto a qualche amara riflessione sul rapporto scuola-famiglia e sul ruolo dei genitori nella formazione degli adolescenti.
Mi sono anzitutto chiesto come mai quei genitori abbiano impugnato il provvedimento disciplinare. Due le risposte possibili: 1) o essi hanno voluto dare al figlio un messaggio di “educazione alla legalità”, nel senso che il rispetto della legge deve valere per tutti, anche per chi è tenuto ad applicarla e a farla applicare; 2) oppure essi hanno voluto garantire al figlio una protezione assoluta, ritenendo che la famiglia sia sempre tenuta a coprire, a difendere i suoi componenti da tutto ciò che possa danneggiarli o indebolirli.
Se fosse giusta la prima risposta, credo che i due genitori sarebbero dovuti essere paghi del fatto che il provvedimento contro il loro figliolo, sia pure inizialmente inficiato da vizio procedurale, sia stato poi non solo ratificato all’unanimità dal Consiglio di classe col parere favorevole del Consiglio d’istituto, ma sia stato addirittura approvato e legittimato dalle stesse madri di due dei quattro ragazzi puniti (una delle due è insegnante).
Bisogna, pertanto, pensare che la risposta giusta al perché della richiesta di impugnazione vada ricercata nel “familismo amorale” dei due genitori. Se ne può dedurre anche che quei genitori iperprotettivi sono un paradigmatico esempio di una larghissima parte dei genitori italiani, che attenti osservatori e pedagogisti individuano fra i maggiori responsabili dell’attuale crisi adolescenziale di massa.
Dopo l’aggressione di alcuni studenti di Torino a un compagno di classe portatore di handicap (il cui video è stato poi messo su Internet dai responsabili dell‘indegna bravata) il filosofo Umberto Galimberti ha scritto che “oggi stiamo spaventosamente regredendo. E costruendo fin dalla più tenera età ragazzi che cercano la loro identità nella forza. Non nella forza del carattere, e neppure nella forza del pensiero, ma – nella completa afasia del cuore e della mente – nella forza dei muscoli, naturalmente dopo aver opportunamente valutato che la propria forza superi quella dell’altro”.
Galimberti riscontra anche che, nel cuore di tali ragazzi, oggi latita non solo l’amore ma anche il sentimento della commozione (che dovrebbe essere naturale, quando di fronte a noi c’è un nostro simile, per giunta più svantaggiato di noi) e si chiede: “Dobbiamo allora pensare che la nostra cultura sia così degradata da infrangere, sin dalla giovane età, non solo il precetto universale di amare il prossimo, presente in tutte le religioni, ma anche il ribrezzo naturale di accanirsi sul più debole?”.
Un terribile monito è venuto, giorni fa, dal magistrato Livia Pomodoro, presidente del Tribunale dei minori di Milano. ”Gli adulti – ella ha detto – devono prendere coscienza che stiamo educando dei mostri. E’ necessaria una rivoluzione delle coscienze”.
Ho ricordato al mio collega che, da una recente statistica, risulta che il bullismo in Italia continua a crescere e che nelle scuole sempre più si verificano prepotenze, insulti e soprusi da parte dei gruppi sui compagni più deboli.
Ha osservato lo psicologo Gustavo Petropolli Charmet: “Il bullismo cresce sempre di più perché sempre di più l’identità i giovani la chiedono e la ricevono dal gruppo e non dalla famiglia di origine. Il gruppo, che nasce già tra i banchi delle elementari, dà sicurezza, senso di appartenenza, valore. Può spingere a fare ciò che un ragazzo, da solo, non farebbe mai. E’ la famiglia sociale dei giovani d’oggi, molto più sentita, molto più importante – nella loro formazione – di quella di origine”.
Un’altra nota psicologa, Tilde Giani Gallino, ha invece stigmatizzato il dilagante permissivismo: “Credo che ci si una cultura dominante che tende a giustificare sempre e comunque i gesti dei giovanissimi. Fino a stupirsi se i ragazzi di Torino vengano sospesi da scuola. Un argine a questo tipo di fenomeni può arrivare soltanto da un riscoperta delle norme, del senso del limite. I teenager di oggi arrivano da famiglie sempre più permissive, sono circondati da adulti che cercano soltanto di compiacerli, da una scuola che non chiede più nulla. E molti insegnanti fanno finta di non vedere”.
Una indagine Ipsos del 2005 ha rivelato che il 70% degli Italiani ritiene che i genitori siano troppo permissivi, troppo disposti a proteggere i figli contro un brutto voto a scuola, una qualche azione disciplinare promossa al di fuori della famiglia. “In quei dati – ha scritto il sociologo Ilvo Diamanti – si coglie una nostalgia per l’autorità perduta da genitori che oggi appaiono poco autorevoli, incapaci di proporre – tanto meno di imporre – modelli e valori”.
“D’altronde – ha scritto giorni fa, su ‘La Repubblica’, Corrado Augias – è difficile essere autorevoli in una società dove ogni principio di autorità viene sistematicamente delegittimato, dove gli esempi che grondano dalla pubblicità e dalla TV sono quelli che sono e la spinta più forte è verso i consumi. Ci vorrebbe nei genitori un’energia e una convinzione che spesso manca. Si preferisce ’dialogare’ con i figli, annullando così quella ’asimmetria di rapporto’ che è alla base di ogni efficace pedagogia”.
Nel momento del commiato ho confortato il collega con la mia solidarietà e la piena adesione al suo operato di dirigente, ricordandogli un ulteriore pensiero del filosofo Galimberti: “La scuola, prima delle discipline che è incaricata a insegnare, dovrebbe incominciare a indagare se i fondamenti della natura umana sono ancora presenti e attivi nei ragazzi che ogni giorno vanno a scuola e poi a casa accendono il loro computer per identificarsi con quell’aggressività malsana che fraintende la crudeltà con la forza e l’affermazione della propria identità con l’accanimento fisico sul più debole e il più indifeso”.
(Eventi, 2008)