Fiori di Napoli
la Morte – la mala Vita – l´Amore
EducaCi-Teatro
7 e 8 febbraio 2009 – ore 20
Centro Sociale di Sarno
Attori:
Sonia Amabile
Antonio Bello
Pasquale Bello
Gilda Buonaiuto
Anna Maria Carillo
Giuseppe Cutolo
Anna Guastafierro
Luisa Salvio
Antonio Santaniello
Alessandra Spera
Al pianoforte:
Gino Cerrato
Costumi e Immagini:
Gruppo Artistico EducaCi
Ideazione, testi e regia
Vincenzo Cutolo
Lo spettacolo si ispira a opere di Vincenzo Cutolo, Giovanni D’Angelo, Eduardo De Filippo, Antonio De Curtis (Totò), Salvatore Di Giacomo, Raffaele Viviani.
Le canzoni sono tratte dal patrimonio musicale napoletano, classico e moderno.
FINALITA’ DELLO SPETTACOLO
Tra le finalità dell’Associazione EducaCi, come si può evincere dal suo
sito internet (www.educaci.it), figurano anche l’Educazione alla identità storico-artistica e l’Educazione multimediale.
Lo spettacolo “FIORI DI NAPOLI / la Morte – la mala Vita – l’Amore” (ispirato al mio omonimo testo pubblicato dall’editore Oedipus di Milano/Salerno) ha tra i suoi scopi entrambe le Educazioni predette.
Esso mira, infatti, all’Educazione alla identità storico-artistica mediante la fruizione di significativi frammenti della lingua campana “alta” (la lingua di Eduardo De Filippo, Salvatore Di Giacomo, Totò, Raffaele Viviani), affiancati da frammenti di produzioni mie e da un frammento poetico di Giovanni D‘Angelo, originario di Sarno.
Sono tutti frammenti di una lingua campana bellissima (nota nel mondo grazie anche alle sue canzoni, presenti in larga parte nel testo dello spettacolo), che è capace di esprimere – con bello stile, icastica armonia e immagini elevate, come nelle letterature piú celebrate – i vari moti dell’animo dell’uomo.
Ha osservato il linguista Tullio De Mauro che tra dialetto e lingua nazionale corre il rapporto che ritroviamo tra campagna e città: come, senza l’apporto dei beni della campagna, la città resta asfittica e morente, cosí – senza l’apporto dei dialetti – la lingua nazionale rimane senza linfa, come morta.
Il testo dello spettacolo “FIORI DI NAPOLI“ restituisce i maggiori “fiori“ della lingua campana, giocando teatralmente sui temi universali della morte, del vivere, del sentimento d’amore. Ed esprime, di tali temi, le facce variegate, i vari aspetti, i segni quasi sempre caleidoscopici.
E’ una lingua poetica che si fa riflessione, saggezza, filosofia, ragionamento sul vivere (soprattutto sul tema dell’amore, dove essa esprime il meglio di sé: nei versi stilnovistici dedicati alla Donna, nel fuoco crogiolante delle gelosie e passioni, nell’elegia dolcissima di villanelle e canti).
Lo spettacolo, infine, utilizza – unitamente ai gesti, alle parole e ai suoni – immagini figurative della pittura contemporanea, in funzione multimediale e arricchente.
Per tale aspetto “FIORI DI NAPOLI“ si caratterizza quale esempio moderno e originale di “teatro di ricerca“.
Lo spettacolo si rivolge soprattutto ai giovani. Morte, male di vivere ed amore sono, infatti, tra i grandi temi dell’esistenza dell’uomo; e sono nei “curricula“ di ogni pedagogia. Il suo testo (che aiuta a meglio comprendere il nostro Mezzogiorno e la sua cultura), puó ben contribuire a rafforzare – nel mondo giovanile – quell’amore per il Bello da cui sempre si originano speranza e palingenesi.
Vincenzo Cutolo
VITALITA’ DELLA LINGUA NAPOLETANA
Quando, dopo che Vincenzo Cutolo mi aveva proposto di tradurre in lingua tedesca “Fiori di Napoli”, iniziai a leggere il testo per saggiarne le difficoltà, immediata fu l’attrazione per questo universo napoletano che mi si apriva davanti.
Iniziai ad addentrarmi in questo mondo di sogni e di colori, e traducendo mi fu possibile verificare verso per verso quanto la lingua costituisca parte inscindibile della cultura che trasmette.
La lingua apparentemente semplice è tuttavia caratterizzata da un vocabolario ricchissimo: i sentimenti umani sono espressi spesso metaforicamente attraverso la descrizione dei paesaggi, della natura e della vita quotidiana.
Così la Morte (“immaginate un po’ si è seduta sul davanzale e con un sorriso mi ha guardato”) travestita da “vecchierella graziosa: mi pareva la nonna, Sant’Anna. Era, sissignore, una faccia coperta solo di pelle…”.
L’idioma popolare e gli intercalari che lo caratterizzano tolgono non la drammaticità della morte in sé, ma il senso di angoscia, perché su tutto prevalgono la vivacità, la bonomia e la sensazione di una sconfitta non irrimediabile.
Il discorso tratto da “Filumena Marturano” nella seconda parte del testo teatrale è anch’esso costruito con le parole di una popolana; anche qui le scene dal quotidiano, le descrizioni concrete, l’esuberanza nel comunicare attenuano l’angoscia: la naturale capacità di esternare senza remore la propria sofferenza è già un modo per sconfiggerla.
Lo spettatore resta colpito da questo crescendo di malavita, ma nello stesso tempo prevale in lui la sensazione di una solidarietà umana che lascia aperte le porte alla speranza.
E infine l’amore è un turbinio di profumi, di tramonti, di notti di luna, di scenari marini, che accompagnano gioie e dolori dell’innamorato.
E questa vitalità, che straripa da ogni frase, dai più vari intercalari, dai paragoni più azzardati, rende la cultura napoletana unica al mondo.
Essa affascina anche colui che non comprende il significato delle parole, poiché le parole in sé sembrano vivere una loro vita una volta pronunciate e chi ascolta resta incantato e sempre più incuriosito a conoscere di più, ad assimilare, ad imparare saggezza.
Marina Mezzasalma
TRE “ISOLE” SCENICHE
Buio. All’improvviso, l’immagine imperiosa di un Pulcinella – a metà tra il ghigno picaresco di un burlone e la figura dolente di un povero Cristo in croce – accende lo sfondo, duplicata sul proscenio da un pulcinella in carne ed ossa che, novello Virgilio, prende il pubblico per mano e intonando con voce scanzonata un canto in dialetto, sulle note suasive di un pianoforte lo conduce confidenzialmente per i vicoli stretti di una Napoli proletaria: “t’accompagno vico vico, sulo a tte ca si’ n’amico…”. Un corteo rutilenante di popolane e popolani irrompe chiassosamente sulla scena.
Risa, canti e balli al ritmo trascinante di allegri tamburelli, raganelle e scetavaiasse: inizia il viaggio nel cuore di una città “scarrafona”, dai mille colori e dalle mille paure.
Si susseguono incessanti le scene che illustrano in tre quadri (o cantiche, ripercorrendo il modello dantesco) i temi essenziali del dramma partenopeo: la Morte, una “vicchiarella” che si porta via tutti, indistintamente, giovani e vecchi, perché “è ‘o munno c’ha da i’ accussì!”; la mala Vita, il malessere che infetta l’aria dei vicoli e spinge i miseri a scontrarsi tra loro, comari e guaglioni, sciantose irriverenti e guappi boriosi. E l’Amore: dolce e amaro, distratto o disperato, narrato da un cantastorie, descritto dalle facce pop di Warhol, vissuto da marionette che inscenano una love story familiare.
Questa è Napoli, una città dalla struggente bellezza senza tempo, inquinata da “na manica ‘e fetiente” senza coscienza né rispetto che mortifica l’anima orgogliosa di un popolo antico, ma che non riesce a reprimerne l’incoercibile voglia di vivere. (E grazie al cielo sono sempre più numerosi i giovani che vogliono dire basta ai soprusi e ai falsi valori di “sta sfaccimma ‘e camorra”).
Uno spettacolo denso e coinvolgente: “isole” sceniche fuse dal collante del dialetto napoletano, espressione vivissima di una cultura cittadina e regionale che ha saputo diffondere in ogni luogo, grazie anche alla laboriosità dei suoi figli che hanno dovuto emigrare all’estero, trasferendovi le proprie radici, le canzoni, i sapori mediterranei.
I capolavori artistici del Novecento e le foto della Napoli che fu e che è tuttora – proiettati sullo schermo di fondo – rinsaldano la forza espressiva dei testi, mentre le musiche e le stupende canzoni (Anema e core, Na sera ‘e maggio, Malafemmena…) trascinano il pubblico. Un affannarsi di anime… ma, in fondo, cos’è la vita? “E’ n’affacciata ‘e fenesta”.
Silvia Casadei