Il racconto del recente libro di Raffaele Di Domenico (Quando Berta filava, Tipografia Buonaiuto, Sarno 2016) menziona – tra gli altri eventi e personaggi direttamente o indirettamente legati alla storia delle fabbriche tessili di Sarno – tre amare vicende, conclusesi con un non lieto fine: 1) la parabola della Filatoria e Tessitoria Buchy & Strangman, passata da una fase di impresa con alle dipendenze centinaia di operai (e un meritato prestigio internazionale) a una fase di declino e fallimento determinati sia dalla crisi del settore, sia dai rovinosi danni prodotti dall’occupazione tedesca del 1943, cui seguì il mancato risarcimento da parte dello Stato e l’acquisizione dell’intero complesso da parte del Banco di Napoli, che lo rivendette all’asta a un gruppo di privati locali; 2) la parabola dell’ing. Marco Cordasco, passato dalla rapida ascesa e dai fasti della sua impresa edile di successo alla fase finale del suo fallimento, prodotto dalla brutalità e dalla virulenza della camorra (che, oltre ad assassinargli un fratello, ne causò la precoce senescenza e la fine); 3) la parabola, brevissima, del Piccolo Teatro d’Arte che progettò di trasformare in teatro la Palazzina della ex filanda Buchy e vide concludersi tale utopia nel fallimento purtroppo totale, nell’anno 1974, “per controversie di natura ideologica” che condussero il gruppo di cultura allo scioglimento.
Ma, nel rievocare le alterne vicende legate alla industrializzazione tessile della cittadina sarnese, il libro ricorda anche le numerose figure che ne condivisero nascita, evoluzione e morte–mutazione: Carlo Filangieri, Luigi Giura, Rodolfo Glarner, Raffaele e Francesco D’Andrea, Giuseppe e Guglielmo Turner, Raffaele Pepe, Filippo, Matilde e Ginevra Buchy, Antonio Curri, i Fratelli Franchomme, Francesco Mastriani, Augusto Sideri, Michelangelo Capua, Pietro e Giovanni Abignente, Onofrio Tortora, Giovanni Amendola, Renato Franco, Giuseppe Napoli, Gaetano Milone, Cesare De Seta, Raffaele Abenante, Armando Annunziata, Ferdinando Orza, Emilio Mancuso, Aldo Rainone.
Il libro si fa apprezzare anche per la ricchissima documentazione grafica e iconografica. Contiene, infatti, numerose e rare immagini delle antiche fabbriche, sia nel loro iniziale splendore, sia nella loro rappresentazione di fatiscente “archeologia industriale”. I progetti di restauro (quelli dell’équipe De Seta-Guida-Rubino per la D’Andrea; quelli dello stesso autore Di Domenico del Palazzo residenziale Buchy; quelli degli architetti Cassano e Milone di una porzione della Buchy; quelli dell’équipe Ascolese-Paradiso-Cioffi dello Stabilimento Franchomme al ponte Alario) sono, inoltre, di lettura chiarissima e di intelligente prospetto. Di Domenico ci offre anche brillanti prove della sua maestria tecnica nella riproduzione di elementi architettonici di varia foggia: sezioni, prospetti, fregi, capitelli, bugnati, bifore, formelle. E scrive: “I cambiamenti fisici dell’habitat che ci ha visti bambini sono sempre traumatici, ché si portano dietro solo strascichi di rimpianti e malinconie, segnali palesi del tempo che passa, e noi con esso”.
Non ci vuole molto a capire che l’evoluzione della piccola città e la trasformazione d’uso delle sue antiche fabbriche tessili (avvenuta, spesso, senza alcun rispetto delle regole urbanistiche e di quelle estetiche) non trovano il consenso dell’autore del libro.
Di Domenico tuttavia afferma che “la speranza non deve mai morire affogata nel pessimismo della ragione”. E a “una storia di promesse mancate, di speranze deluse” (che lascia intravedere le gravi responsabilità politiche del passato, anche di quello recente) egli contrappone l’ auspicio di una nuova generazione che sappia credere “in un Futuro” e che sia fatta di “uomini preparati e responsabili, come quelli di una volta”. Una generazione, in definitiva, che non finisca per “perdersi in tanti bla bla disfattisti, privi di costruttività”.
( Facebook, giugno 2016 )