Di Corrado Ruggiero, dopo la morte, ci restano i suoi numerosi articoli apparsi su riviste e giornali, la memoria dei suoi colti interventi (in vari corsi e convegni), le recensioni, ma soprattutto i suoi cinque romanzi “Rossa malupina”, “Ballata nucerinese”, “Nuova Nocera York”, “Gennarina” e “Verso sera “ (pubblicati, rispettivamente, il primo da Pironti e poi da Deleyva; il secondo e il terzo da Oedipus; gli ultimi due da Marsilio).
I cinque romanzi rivestono – a mio avviso – una importanza notevole nella letteratura italiana contemporanea.
LA LINGUA
Ha scritto Cesare Segre che l’intento primario dei romanzi di Corrado Ruggiero “è di offrire un’analisi sociologica di Nocera attraverso il tempo”. La trilogia su Nocera (i primi tre romanzi) narra, infatti, le metamorfosi urbanistiche, sociologiche e umane della cittadina a nord di Salerno, a partire dalla scelta dei Borbone di farne un presidio militare per Napoli fino alla speculazione edilizia e alle trasformazioni di oggi dopo il prefascismo, il fascismo, la tragedia della guerra, l’arrivo degli Alleati, il dopoguerra e gli anni del boom.
La lingua dei romanzi è un crogiolo di linee espressionistiche, libertà associative, ricchezza di registri. Ruggiero fa parlare le sue figure qualche volta direttamente in dialetto, ma quasi sempre in un italiano che mutua – dal dialetto dell’agro nocerino – lessico, modi di dire, suoni, impianto sintattico e perifrasi, conseguendo forti risultati espressivi.
A leggere certe espressioni (italianizzate dallo scrittore) sembra quasi di trovarsi di fronte alla lingua di un personaggio di Eduardo de Filippo, la Rosalia Solimene di “Filumena Marturano”, che nella commedia si autodefinisce “limpida comm’all’acqua surgiva surgente”.
I romanzi di Ruggiero abbondano, infatti, di costruzioni sperimentali modellate sul dialetto campano: “pigliare conto e ragione di quello che era succiesso”; era stato trovato muortacciso”; sbattevano le imposte in faccia a quelle sbruvugnate”; “alle tre spaccate stavo a casa sua”; “ci si scrivevano solo poche guagliottelle”; “va a Salierno”; “le pedocchie sagliute erano le più sfacciate”; “i catecumeni della quarta portavano scritto in fronte che loro erano i più frescarrivati”; “non teneva più neppure gli occhi per piangere”; “tutti gli studienti e le guagliottole”; “l’anno appresso perdemmo, o perdiettemo”; “un muortodifamme”; “si era messo con uno sfelenzo”; “perdettemo a Gigino Auriemma e tutti rimaniettemo con la bocca aperta”; “una machina accussì”; “la spaidèr rossarossa aveva fatto scendere la lingua a tutti quanti”; “una folla di tutti i muccusi e i muccusielli del quartiere si era fatta intorno alla spaidèr come un grumo di muschilli intorno a una lanterna”.
E ancora: “se ne stava spaparanzato come un Cristo in croce”; “don Ciccio aveva levato pure a lei un pesaturo dallo stomaco”; “bisognava discutere il perché, il come e il quando della disgrazia frescafrescaccaduta”; “come se l’avesse fatto apposta, quest’ultima schiattiglia”; “Assuntinella Pilarossa non gli aveva mai fatto guardare neppure di smerza niente di niente”; “mormoravano malignose anche le bizzoche che non mancavano mai al vespertino rosario”; “l’Avvocato frescofresco muortacciso là in terra”; “Consiglia camminó con due piedi in una scarpa sola”; “muortacciso come a un cane”; “Capajanca parlava isso sulo. Rosecava”; “si era vestito da scemo e faceva il fesso per non andare alla guerra”; “oggi, pure le pulci tengono la tosse”; “bisognava farsi una bella scarpesiata per arrampicarcisi”; “piangere per sciogliere il riccio del cuore a chi doveva avere pena”; “mancavano sempre diciannove soldi per mettere insieme la lira”; “passavano le serate a fare i conti e i contraconti delle corna di tutti quanti”; “prendere uno sciuliamazzo per la liscivia che scorreva notte e giorno in mezzo ai basoli”; “camminavamo svelte svelte sottosotto il muro”.
E, nel penultimo romanzo, che la vede protagonista, la giovane Gennarina viene così descritta: «Scattigliosa. Spruceta. Con una faccia storta dalla mattina alla sera. Accussì era diventata. Ecchì se lo aspettava! Chi lo poteva immaginare! Eppure quando era creatura non era accussì anche se, nei momenti di maggiore dispetto, la mamma ne faceva risalire la mala mente all’infanzia addirittura»
Naturalmente la lingua di Ruggiero non è soltanto questa. Nei suoi romanzi egli usa anche una lingua letteraria colta, armoniosa; fluente, icastica e melodiosa. Due esempi fra i tanti.
Dipingendo l’adolescente Assuntina (la “Rossa malupina” del primo romanzo), egli così ne tratteggia il cambiamento da bambina a donna: “I lineamenti del viso, le guance specialmente, sfinarono quello che ancora rimaneva del profilo paffuto di bambina cresciuta in fretta. Le labbra si arcuarono in una doppia onda appena leggibile. La farfalla che si era appena intravista – la stagione, due stagioni, forse tre stagioni passate – uscire dalla scorza nera del cappottuccio, i capelli esplodere dallo zucchetto di lanaccia nera in un cespuglio di ginestre, quella farfalla non era più, ora, in difetto ma si stava espandendo se non si era tutt’espansa. Ali larghe e coloratissime, l’iride da iride delle farfalle tropicali”. E ancora: “Mi tirava a sé quella macchia gialla. In uno scenario grigio, il grigio intenso scuro dei basoli di pietra del Vesuvio, quel giallo fiore giallo giallo delle ginestre che andava sopra e sotto – ginestre che oscillavano al vento. Inquiete irrequiete come le onde del mare, come la vita”.
E descrivendo Nocera, lo scrittore adopera invece il seguente registro: “Con montagne da una parte montagne dall’altra e aperta verso la pianura e il mare per il resto, Nocera è umida e non era caso che le strade, al mattino, fossero bagnate proprio come se avesse piovuto. Tanta era l’acqua di cui il cielo, dormendo, si liberava. Era un umido che metteva l’assedio alle ossa da ogni lato, inzuppava i muri delle case, si mescolava perfino alle lenzuola e ti faceva trovare il letto che sembrava bagnato quando ti ci andavi a infilare”.
Nei suoi romanzi Ruggiero utilizza spesso anche la lingua latina, per sublimare, arricchire, commentare i concetti espressi o in lingua italiana o nell’impasto lingua-dialetto.
In “Rossa malupina” la descrizione del rito della messa viene, ad esempio, scandita coi termini liturgici “Introibo, Credo, Ite”, per poi concludersi con un liberatorio “Consummatum est”. Lo zio sarto di “Assuntinella” concede l’ “imprimatur” sulle inquietudini della ragazza ed è solito ritirarsi coi clienti nel “Sancta Sanctorum” del suo laboratorio. Da adolescente, lo scrittore non apprezza le premure materne, finalizzate a preservarlo “de vanitate mundi et fuga saeculi”, e continua a lottare contro le tentazioni del diavolo ( “… hostemque nostrum”), chiedendosi perché la Beata Vergine ignori gli uomini gementi e piangenti (“in hac lacrimarum valle … gementes et flentes”).
Lo scrittore avverte, nel proprio cuore, una inquietudine strana (“inquietum est cor nostrum”) e titola “de profundis” il monologo post-mortem dell’avvocato ucciso dal fruttivendolo Ciccio. Di coloro che non sono partiti per il fronte di guerra Ruggiero definisce, poi, “damnus cessans” lo scampato pericolo e rafforza il tutto con un “lucrum emergens” (a definirne le improvvise ricchezze).
Collega, quindi, il mantello di cenere, lasciato dal Vesuvio sulle case e sui campi, col destino dell’uomo (“cinis es et in cinem reverteris”), chiosando invocazioni e preghiere con le espressioni “sis praesul et custodia” e “procul recedant somna et noctium phantasmata”.
In “Ballata nucerinese” lo scrittore rievoca la manomorta di monasteri e conventi, cui si aggiunsero – operate dalle “persone perbene” – le divisioni di terre e case (“quae erant pauperum Dei”). E per insegnare a sciogliere “uno gliommero ingrifato” (un gomitolo da dipanare), egli utilizza Tibullo: “Quis fuit horrendos primus quis protulit enses”.
Circa le notizie sui progressi delle glorie paesane, Ruggiero ricorda che il giornalaio le affiggeva in bacheca “urbi et orbi”, mentre l’ora dell’entrata al liceo viene definita “l’ora dell’introibo”. La pausa del docente di Lettere (sui termini “lentus” e “umbra”, quelli di una celebre egloga delle Bucoliche) viene poi preceduta dai primi versi della poesia di Virgilio (“Tityre tu patulae recubans sub tegmine fagi”), seguita da un altro verso del poeta latino (“Formosam resonare doces Amaryllida silvas”).
Alla vedova baronessa Pianura viene mantenuta “ope matriculae” l’iscrizione al Circolo dei Signori , nonostante la sopraggiunta indigenza, mentre i “piani alti del Corso” decretano “illico et immediate” di punire un plebeo di cui (controcorrente) si è innamorata una “figlia di signori”.
Ruggiero nota anche che, talvolta, per i “nuceresi” il passaggio “dall’universo di sotto a quello di sopra” avveniva “pleno jure”. E, nell’elencare i testi che in lui contribuirono alla crescita culturale, egli cita anche il “Syphilis sive de morbo gallico” di Gerolamo Fracastoro, gli incipit oraziani “Qui fit, Maecenas, ut …” e “Ibam forte via Sacra”, il “De rerum …” di Lucrezio e, infine, il “deus ex machina” delle antiche tragedie.
In “Nuova Nocera York” Ruggiero afferma che “le anime sagaci” erano certe che don Gaetano Donnarumma sarebbe stato ucciso “ope offici”. Introduce, poi, il sospetto che le “case cadute perché fracite di nascita” non erano affatto crollate per i motivi che “i professori chiamati da Napoli e Roma” definivano “Terrae Motus”.
A Nocera la costruzione del nuovo liceo interrompe l’affitto del vecchio seminario (che “Sua Eccellenza il Vescovo aveva concesso per saecula saeculorum”). E Ruggiero usa per due volte il termine “busillis” (residuo del latino “in diebus illis”), riferendo che, circa un delitto, il capitano dei carabinieri si era confidato “in camera charitatis” nel Circolo dei Signori.
L’avvocato Sorrentino e don Gaetano, i “dipartiti” di due dei cinque romanzi, sono definiti dallo scrittore “Gigino e Gaitano: nomina nuda dinanzi all’Eterno”, mentre per il primo dei due personaggi vengono citati “i de profundis, i te clamavi, i domine, i requiemaeternam, gli innominedomini”, con l’aggiunta che nessuno può leggere “nel libro mastro di Nostro Signore” ciò che è scritto “ab aeterno”.
Un inquirente, impegnato su un ulteriore caso di morte violenta, fornisce “coram populo” le notizie del fatto a un’emittente locale. E, alla fine di “Ballata nucerinese”, lo scrittore narra che, passando per Nocera (provenendo da una città del Nord Italia, dove risiedeva da anni), incontrò un antico esponente del Circolo dei Signori. Questi recitò una propria poesia e offrì poi alla padrona del locale un sonetto ”in lode del baccalà”, in cambio di alcune pizze mensili. Al rifiuto della signora, Ruggiero chiosa l’episodio con un “Carmina non dant panem”.
L’IRONIA
Nei romanzi Ruggiero ama anche filosofare. In una pagina di “Ballata nucerinese”, ad esempio, egli parla del “filo invisibile” che dovrebbe legare tutte le cose del mondo (“per porre un argine alla disperazione dell’uomo”). Ma poi conclude che “è tutto da vedere” dove questo filo si trovi.
In un brano ulteriore lo scrittore ragiona sull’essenza dell’uomo e scrive che “il Padreterno ci ha fatti tutti quanti della stessa materia”. Per essere precisi – poi aggiunge – “ci ha ricavati dall’informe caos primordiale, impastando insieme la merda e la monnezza. Altro che biblica argilla”.
Circa la sofferenza, lo scrittore sostiene che “ogni dolore è un carato della nostra malattia. La malattia di vivere”. E per l’uomo – egli aggiunge – non c’è alcuna salvezza: le cose sono, infatti, destinate “a girare, trascinate dalla ruota del disio e del velle” (ruota che continuerà a girare, come ha sempre girato).
Nell’Introduzione a “Rossa malupina” il critico Cesare Segre ha anche scritto che “il sorriso dello scrittore permane su tutto il libro”.
E’ vero. Sia quando ragiona da filosofo, sia quando commenta con ironia vicende e fatti narrati, Ruggiero rivela sempre un distaccato sorriso, una superiore distanza, che ne rende i romanzi ancor più interessanti e godibili.
Parlando di un’infermiera-inserviente (Consiglia, la madre di Assuntinella “Rossa malupina”), lo scrittore la definisce “ciuccia di fuoco, un pagliaio che non poteva essere sfiorato neppure da una scintilla, quand’era giovane”.
E, insistendo sugli argomenti sessuali, Ruggiero arricchisce i romanzi con annotazioni gustose. Quattro “impaparacchiate” sorelle – le Aufiero, note come le “sorelle Marciapiedi” – chiacchierate perché leggere (si erano, infatti, “passate tutte le compagnie dell’esercito italiano”), egli le definisce scherzosamente “Nafta, Benzina, Petrolio e Olio”. E accennando poi allo spettacolo della “sfessa”, offerto da Assuntinella a un compagno, Ruggiero dice che quel ragazzo ha “visto tutto il cinema che c’era da vedere, ammesso a vedere in prima fila e in prima visione assoluta”.
Descrivendo poi Amalia la tabaccaia (amante dell’avvocato Sorrentino prima che questi la abbandonasse per sposare la figlia unica di un ricco professionista), lo scrittore riferisce che a iniziare costei (“con un rapido corso di aggiornamento”) fu l’amante, “aggiornato nei migliori casini della capitale”. E definisce “Crisostoma, Afrodite Crisostoma … Boccadorata” una prostituta del lupanare locale, mentre “le più devote bizzoche di Nocera” (gelose dei mariti) chiamano “zoccola cinematografica” l’attrice americana Rita Hayworth bella e famosa.
Nel vicolo, dove Assuntinella abitava, spesso “un diluvio di oro e ambra veniva giù all’improvviso”: fetido contenuto di “un cantaro di pisciazza”, rovesciato su ufficiali giudiziari, esattori di tasse, lettori di luce e gas. Per la ragazza, poi, andare a trovare “la Romanina” (una vicina di casa, andata sposa a Roma e – vedova – ritornata poi alla natia Nocera) era “la terra incantata, … la Terra Santa dei suoi pellegrinaggi”.
“In fatto di femmene e di mangiare”, scrive ancora Ruggiero, l’esponente del Circolo dei Signori Sballestra era “Cassazione e Sezioni Riunite”. E, circa i misteriosi delitti avvenuti nella cittadina, lo scrittore annota con ironia: “Ma comme … uno viene chiamato di punto in bianco a rapporto alla Casa del Padre e non si riesce a sapere il perché di questa improvvisa convocazione?”.
Il mistero dell’uccisione di Scapece (“un lavoro di alta sartoria con doppia rifinitura”) provoca “più discussioni lui che tutte le dodici categorie di Aristotele” (si tratta del Pasqualino Scapece che, appostatosi al solito angolo del bar Tropicana, “pareva un guerriero di Geronimo che guarda, dalla collina, la diligenza che passa laggiù nella vallata”).
Circa poi l’intrico delle insistenti domande sugli avvenimenti, Ruggiero scrive che “non bastavano i sillogisti gli epistemologi gli scienziati. Per sciogliere questi gliommeri aggrovigliatissimi ci voleva la Sibilla Cumana”. E aggiunge che l’assassino “aveva fotografato con un colpo di pistola” don Gaetano Donnarumma, mentre tra la folla che attende notizie circolano “parole mezze dette, mezze no. Frùfrùfrù di ali di cardillo, frulli di passariello …”.
L’industriale Luigi Auriemma viene definito “soltanto un pidocchio sagliuto” e lo scrittore sottolinea anche come la correzione dei nomi – a Nocera – dia l’illusione di essere come “figlie dei signoroni” (“Rosa veniva sublimata in Rossella, Carmela in Carmen, Antonietta in Antonella o Antonellina, Addolorata in Dolores, Consiglia in Consuelo, Assunta in Susanna o Susy, Immacolata in Imma o Mimma, Giannina in Giovannella”).
Parlando del Vescovo, Ruggiero scrive: “Venderebbe l’acqua a Cristo, Sua Eccellenza!”. E, nel descrivere un gerarca fascista, venuto a inaugurare il liceo, lo scrittore ironizza sulle arti oratorie del personaggio, annotando: “ … ecché ne volete fare di Porzio, di De Marsico … lui se li mette dentro a la sacca a tutt’e dduje, lui, il Cicerone nostro”.
Ironizzando infine sui nocerini, Ruggiero scrive: “Gente seria …Rifiutano, per principio, i filosofemi astratti. Sono filosofi della più sana immanenza. Niente Platone, perciò! Vanno guardati i fatti, in specie quando si tratta dei fatti degli altri”.
Per poi aggiungere subito: “Dal cielo non si sa mai cosa ti può cadere in testa. Perciò la cosa migliore – raccomandavano gli esperti in letteratura sapienziale – era di farsi i cazzi propri. E loro se li facevano”.
IL DELITTO
II delitto è presente in moltissimi libri, nella storia della letteratura. Ed è un topos che gli scrittori dividono in due categorie: quella dell’omicidio il cui colpevole è noto già dall’inizio; e quella tipica della cosiddetta “letteratura gialla” (di Christie, Conan Doyle, Camilleri, ma anche di Simenon) in cui l’assassino viene reso noto solo alla fine del racconto, dopo indagini minuziose e rituali.
Nella narrativa degli ultimi secoli, troviamo traccia di delitti in numerosi romanzi (ad esempio nelle opere di Villiers de l’Isle-Adam, Dostoevskji, Wilde, Dürrenmatt, Capote, Thomas Clerc, per citarne alcune). E, in tali opere, gli omicidi sono spesso delitti gratuiti, commessi o per provare rimorso (come nel racconto “Le désir d’être” di Villiers de l’Isle-Adam), o per difendere aspirazioni e prestigio (come in “Il delitto di Lord Arthur Savile” di Wilde); o addirittura per compensare il senso labile dell’esistenza (come in “Delitto e castigo” di Dostoevskij) e per vivere la celebrità (come in “L’homme qui tua Roland Barthes “ di Clerc).
In Corrado Ruggiero la narrazione dei delitti non segue, tuttavia, né il meccanismo classico del romanzo giallo (dove al fatto delittuoso seguono la ricostruzione dell’accaduto, la messa in ordine degli indizi, il lavoro d’indagine, le deduzioni, il disvelamento della verità, infine la cattura del responsabile), né la rappresentazione del delitto gratuito.
A differenza del capolavoro di Gadda (“Quer pasticciaccio brutto di via Merulana”) e dei numerosi romanzi di Camilleri – autori cui i suoi libri vanno comunque accostati, per la comune e innovativa sperimentazione linguistica – , Ruggiero non racconta i delitti rivelandone l’assassino solamente alla fine, ma presenta fin dall’inizio gli omicidi di cui rivela spesso anche gli esecutori.
Questo si verifica già nel primo romanzo “Rossa malupina”, dove l’avvocato Sorrentino viene ucciso dal fruttivendolo Ciccio giacché questi lo ritiene colpevole della non gradita arringa pronunciata in sua difesa al processo per uxoricidio.
E anche nel romanzo “Nuova Nocera York” il misterioso assassinio di Gaetano Donnarumma è subito disvelato come un delitto che ha per mandante un giovane capo camorra figlio naturale del caffettiere.
Ruggiero collega con abilità fatti, avvenimenti e vicende ripercorrendo i lunghi anni di storia della sua cittadina (nei quali fa rientrare differenze di classe, scalate e arrampicate sociali, velleità e aspirazioni non solo plebee, amori segreti, ipocrisie, tradimenti, smargiassate, carriere scolastiche, condizioni giovanili e femminili, patriarcato e sogni, desideri di evasione e liberazione, speculazione edilizia, paure, angosce, maldicenze, ventate di giovinezza, illusioni, crudeltà della vita).
Il delitto è amplificato, nei romanzi, come se lo scrittore volesse conferire maggiore risalto all’intera vita della cittadina; come se volesse richiamare una maggiore attenzione (non solo nei lettori, ma negli stessi personaggi dei libri).
Il fruttivendolo Ciccio spara platealmente un colpo di pistola all’avvocato Sorrentino, pochi giorni dopo la sua uscita dal carcere (dove ha trascorso dieci anni per avere ucciso la moglie). E l’uccisione della giovane moglie, che il marito sospetta di tradimento, è rappresentata da Ruggiero come in una scena da Grand Guignol (l’assassino è, infatti, descritto “con un coltellaccio in mano che pareva di stare all’opera dei pupi. Tore ‘e Criscienzo. Ciccio il fruttivendolo, era diventato il capo dei capi della più antica guapparia napoletana!”).
L’efferatezza di quest’ultimo crimine è anche ben rappresentata dalla stessa modalità del delitto: nell’uccidere la moglie, Ciccio infatti le taglia sia il collo che le mammelle, fino a lasciarla “mortaccisa scannata come un agnello”. “Peggio di quando si uccide il maiale”.
Il colpo di pistola, sparato invece dal fruttivendolo per uccidere l’avvocato, è ingigantito dallo scrittore con una descrizione forte e analitica: esso “tagliò in due il cielo, scivolò sui tetti, rimbalzò dai balconi alle finestre e dalle terrazze alle logge. Una crepa nell’azzurro che entrava trionfante nell’imbuto dei vicoli, inondava lo slargo dove i vicoli si aprivano nel compasso della piazzetta, invadeva le stanze dei balconi spalancati ad accogliere la sfera di sole già maturo”.
Dopo i delitti l’attenzione dei “nuceresi” si fa più vigile e desta. L’autore infatti scrive: “finalmente c’era qualcosa di cui parlare e era uscita qualcosa da fare. Un colpo di pistola che assicurava giorni e giorni di commenti sottocommenti e cointrocommenti tra i vicoli, i cortili, lo slargo della piazzetta, il sagrato della parrocchia e dentro la cantina di Ciro soprattutto”.
Anche la messa in evidenza dell’uccisione del caffettiere Donnarumma è affidata dallo scrittore alla descrizione dell’effetto: quello prodotto dal colpo di pistola al “re del caffè”, proprio in mezzo al petto, con conseguente foro sulla camicia e una grande fuoruscita di sangue. Ruggiero annota: “E ora don Gaetano se ne stava arrognato arrognato per terra, dietro il bancone. La bocca spalancata. Forse un ultimo tentativo di afferrare l’anima che se ne andava” (oppure: “stava là, per terra, muortacciso” … se ne stava per i fatti suoi in un lago di sangue”).
Un diverso delitto è quello che vede la morte di Gigino Auriemma, pure lui avvocato e imprenditore industriale. Lo trovano, due anni prima dell’assassinio del caffettiere, “di mattina presto … muortacciso nel suo studio”. “Muorto tuosto tuosto”, in fabbrica.
Subentrato al padre nella conduzione dell’attività di import-esport, Auriemma ha sposato una giovane e bella nobile napoletana, ha comprato ville e case in varie parti d’Italia, possiede costose auto da corsa, ma tuttavia mostra (stranamente) di avere sempre molti soldi in tasca, in tempi in cui le fabbriche o falliscono o chiudono.
Ora Gigino, però, “stava spaparanzato nella sua poltrona di manager rigido nell’imposimatura del fresco morto. Muortacciso! Il buco secco di una pallottola tra occhio e occhio”. Sapremo dal racconto che, a farlo uccidere con un “colpo a bruciapelo o quasi”, è stato il giovane capo della camorra.
Un ulteriore delitto viene poi raccontato da Ruggiero in modo altrettanto vibrante: l’assassinio di Pascalino Scapece, che, come già il caffettiere, “se ne stava arrognato arrognato nella stessa imposimatura riscontrata dalla scientifica di don Gaetano Donnarumma … un cristiano arrognato muortacciso per terra tra le canne delle acque impantanate”. Il morto somiglia a “un mappuoglio di stracci infarinati di fango e di loto” e gli inquirenti gli trovano nelle tasche – stranamente – banconote per cinque milioni.
Ruggiero riflette sui delitti presenti e passati. E si convince che “i muortaccisi di una volta venivano accisi per passione. Passioni d’amore soprattutto. Ma anche motivi di interesse. Denari e terre da spartire”.
Ora però, egli osserva, Nocera si è modernizzata: pure per i delitti, non più compiuti in piazza, davanti a tutti, ma affidati a killer sconosciuti, spesso provenienti da fuori, dotati di sistemi e mezzi coordinati scientificamente.
I delitti narrati dallo scrittore trovano comunque origine nel nuovo clima “culturale” e sociale. Tutto è infatti mutato, soprattutto a seguito del terremoto, oltre che della devastante speculazione edilizia.
Lo scrittore osserva che ora ci sono “i muortaccisi per la giusta spartenza dei fondi governativi per la rinascita del paese” e ci sono anche gli assassinati per le lotte camorristiche legate all’utilizzo dei suoli, all’apertura di viali e strade, all’ edificazione selvaggia, ai palazzi sempre più svettanti e alti (simili ai grattacieli della città di New York).
E così commenta: “Perfino le antiche case dei signoroni (…) furono buttate a terra per far posto a veri e propri grattacieli. Undici piani. Dodici piani”.
Ruggiero ci descrive la speculazione edilizia utilizzando una prosa suggestiva e inquietante, rievocante la prosa lirica dell’”Addio ai monti” di Alessandro Manzoni: “Addio limoneti e aranceti, addio distese di mandarini e filari di viti, addio verze, verdure nere e broccoli di rape schierati a plotoni, ordinati a reggimento, a eserciti interi! Ma il bendidio, che spariva sotto pale e picconi per fare posto alle nuove strade oramai cittadinesche, faceva diventare suoli edificatori quello che rimaneva delle antiche tenute”.
Alla fine, egli osserva, “non c’era più libero neppure un metro quadrato di terreno se uno ci avesse voluto fare un casiello per il cane”.
Credo che l’intento dello scrittore, coi romanzi, sia stato quello di illustrare al lettore un personale luogo dell’anima, una “città metaforica”, capace di restituire a tutti noi il sentimento del tempo, l’elegia del ricordo, la memoria di vita, ma anche la riflessione profonda sulle ambiguità dell’essere umano, sul mistero dell’essere “gettati nel mondo”, sull’inestricabile “gliommero” della nostra esistenza.
(Lo stato delle cose, settembre 2019)
VINCENZO CUTOLO