ESTATE
“ Afa sudore ultravioletti in picchiata
Sabbia ombrelloni spalle spellate.
Mare montagna piscine clorate
Corpi abbronzati serate incantate.
Frequenze olfattive pensieri lascivi
Amplessi sognati amori bagnati.
Spiagge fuochi chitarre canzoni
Pianti sussurri orgasmi colori.
Pizze panini pesce arrostito
Birre gelati insalate condite.
Pannocchie meloni acqua ghiacciata
Caldo rovente sonni agitati.
Viaggi crociere chi viene chi va
Uffici lavoro nessuno ci sta.
Poi torna settembre autunno latente
Il mare è un incanto non troppa la gente.
Così va sfumando la bella stagione
E tutto il fantastico torna ragione.
“Estate” è una delle quarantadue poesie presenti nella pubblicazione “Esternarsi” di Ettore Locatelli (stampata in forma privata nel dicembre 2011), dove – oltre all’ icastico affresco, realizzato con un accumulo intenso – è degna di nota anche l’eleganza delle assonanze e delle molte rime. Le liriche della raccolta, definite dall’autore “stati d’animo”, offrono una assai densa sintesi dei sentimenti e della visione del mondo di Locatelli.
Del suo paese egli dice: “Non c’è più. E’ sparito”. E ne rimpiange le fontane di strada, “i secchi, i fiaschi e le giare”, i carretti e i cavalli, le donne che stendevano bianche lenzuola “nel profumo di basilico e menta”, le festose frotte di “bimbi che mollavano il filo” agli aquiloni.
L’amore per la poesia derivò a Locatelli dalla lettura, negli anni dell’infanzia, dei “canti e sonetti” tanto cari al padre. E oggi, nei suoi versi, trova posto anche il ricordo dei genitori. Alla madre il poeta, infatti, scrive: “Madre, or che le palpebre chiuse / han stenebrato i tuoi giorni / affannosi (…) trascorreranno i miei caduchi dì. / Colmi della tua assenza”. E, rievocando entrambi i genitori, egli chiede: “Che farò, / quando il pianto allagherà / il mio cuore al pensiero / di mio padre e mia madre? / Allora guarderò al seminato, / ai frutti raccolti”.
Nel leggere dentro di sé, Locatelli esclama: “Vorrei essere un altro, magari altrove (…) Vorrei restare, partire (…) Mi piaccio diverso, ogni volta, / ma sempre uguale a me stesso”. E il “fascino delle chimere” continua, in lui, a “tracciare i sentieri del tempo”; le sue sconfitte sono “come fiele prossimo al miele”. Spesso egli avverte l’oppressione di noia e malinconia: “E quando l’incertezza s’affaccia / e la malinconia viene a cercarmi / io so dove rifugiarmi. / Il lieto ieri è nido di tenerezza / e spensierata gioia / che tutti hanno abitato / prima che l’oggi diventasse noia”. La testa stanca desidera che “riposi comoda e s’allontani, / pian piano, oltre lo stallo farsesco / del giorno (…). E riproponga nuovo cammino / sulla stessa vita”.
Della vita egli dice: “Abito le mie oasi (…) i robot mi sfiorano senza sorrisi (…) il mio cuore è in affanno / per la distanza che nella mente mi / separa dagli uomini nuovi”; “L’acqua che scorre mi ha rubato / la felicità”. Si sente al sicuro al buio: ““Domani, col giorno si faranno sentire i rumori … tornerà la paura, (…) Sarà duro guadagnarsi la sera”.
La pienezza di vita l’avverte nell’amore per la moglie: “Io e non altri. Tu, nessun’altra. / Ora”. Ma prova malinconia nell’osservare la stanza della figlia lontana (“vuota come un cassetto senza sogni”, con la scrivania “senza più libri, senza disordine”; ”Milli è altrove, insegue il suo tempo”). Malinconia produce anche il riflettere sugli amici: “A volte mi han teso la mano / comprati da una bugia. / Spesso mi han voltato le spalle / delusi da una verità. / Ed ho pianto in silenzio”.
Bello è il ”rispettoso ricordo” dell’amica tedesca Therese Lehner, bavarese, di cui Locatelli tratteggia il “destino compiuto” e il “cuore immenso”. E bella è pure l’osservazione della natura animale, forse diversa da quella umana: “Il giunco e la rana / padroni del loro universo / palustre. / Forse sono felici. “; “Un cane zampetta sulla sabbia / annusando conchiglie vuote … Io e lui randagi”.
Locatelli si interroga, da filosofo, sui misteri dell’esistenza e dell’universo. Si chiede il perché delle stelle, del buio, della luce, del bene, del male, dell’innamorarsi, della “cenere della vita” (la nostra vita, che “come un ceppo al camino s’infiamma e riscalda. infine si spegne”). E ai quesiti risponde: “ (…) dietro l’angolo / c’è ancora tempo per / ammirare la vita con stupore”.
Non può eludere il tema della morte: bisogna “essere umili e riflettere / che ogni giorno ci avvicina / alla grande meta”. Dopo aver ragionato sulla sorte degli uomini (“Naufraghi nella fertile / steppa della solitudine, / smorziamo l’arsura / del terrore leccando / dolci lacrime, sulle labbra, come miele. / Non ci resta che stenderci / al sole per riscaldarci / senza tempo”), egli afferma: “Anch’io, salmone, incrociando / destini tornerò all’origine, / tappa dell’eternità”. Ed aggiunge: “… tutto continuerà (…). Nel destino la vita alleva la morte. / Oggi a me piace accovacciarmi su una fascina, / tra gli ulivi, dove canta il merlo, per sentirmi / parte del tutto che mi circonda”.
Poi riprende col filo della vita: “Lontani come il tempo, granelli di sabbia / filanti nel vuoto dell’ampolla, sono i miei giorni”. E ancora: “irripetibile, fatta di cose / case sensazioni baleni ritmi follie / sguardi pianti incontri aneliti e paure, / la mia vita superò il vaglio della sorte”. Infine chiude: “Vanto collezioni di ricordi / campionario di sogni. / Un pedigree di primo piano / per affrontare l’ignoto. / I miei saranno giorni ricchi nell’aldilà”.
( Facebook, novembre 2017 )
VINCENZO CUTOLO