1.
Nella sua recente produzione lirica (Radici al sole, 1988, Gran parte di noi, 1991, La prova deltempo, 1992) il poeta bolognese Anselmo Pellecchia sviluppa fondamentalmente quattro temi di canto: vita-morte-memoria-amore, rievocando – come sempre nella poesia – una personale esperienza che, grazie ai versi, si fa elevata e oggettiva condizione umana. Quale concezione egli abbia della vita, Pellecchia già lo afferma nei versi della prima raccolta, quando osserva “oltre il cancello / una lunga / teoria / di croci” e si pone la domanda se quei morti “vita / vissero / da bruchi / o miser l’ali / e s’elevarono / a farfalle”.
Funzionario di banca, dopo il Liceo, per l’intero percorso lavorativo (costretto quindi a un’attività in cui “sfilano carte / frutto d’arida / contabilità, pena che finge / la compiacenza” e in cui “giorno per giorno, ora per ora / sorbi veleno / in aureo nappo”), Pellecchia chiarisce nettamente che egli nella vita ha scelto le ali, “in fuga verso nuovi cieli”, sempre intento a “raccogliere la voce / il gemito d’un ramo / che si spezza, il coro / frusciato delle cime, / delle radici al sole, / dei sassi levigati / dal logorio dell’acque”. Ed oggi, “con tanti inverni addosso” (il poeta ha più di settant’anni), oppresso dal sentimento “che passo a passo non si rassegna / al lento digradare” che lo “scarna”, egli avverte il bisogno di trasfondere il tutto “in versi / in suoni modulati / dalla microesperienza / d’un uomo sol per tutti”.
La memoria dell’intera vita preme sulla sua anima con ineluttabile urgenza: “Come quercia / quasi centenaria, / abbarbicato / a una sponda, / l’ho visto / questo scorrere il fiume / vorticoso di ricordi”.
Ed egli rievoca le ore dell’infanzia, “i gioiosi gridi / nel cortile ai primi mandorli / fioriti”, i bei momenti in cui si volgeva “a inseguire / il flauto del cuculo nei boschi”, oppure “il capo all’in su, a spiare / la prima rondine sotto la gronda”, allorquando al calar della sera, vecchio, il poeta rivive la “verde vita” (“passata a fari spenti”) con la coscienza di “guardare l’acqua d’uno stagno / e poi pensare a quella tersa a monte”.
Dolce si fa il motivo della memoria: “E m’è caro il ricordo / del canto modulato / d’una nera gracola / mentre leggevo un testo / di latino”. Ma il passato, pur vivo, diviene sempre più fievole (“s’assottiglia / e sfilaccia / la striscia del passato / come carta straccia”) e la stessa memoria si fa inquieto motivo di rimpianto: “Non essersi specchiato prima / nelle cose e negli altri è questo / il fiore avvilito che s’arrangola / e rende troppo inquieta la memoria”. Forse l’oblio potrebbe offrire pace allo spirito affranto (“Dimenticare è un’evasione / di sé da sé”): il poeta si vorrebbe “lasciar andar tutto / in vuoto / di memoria”. Ma non può non ammettere che “ci son sempre / fili di pensieri
“ che lo “legano”. Spesso la mente di Pellecchia corre pure alla morte (“già le unghie del tempo / han leso il velo”). E tuttavia il “nuovo tempo” non lo spaventa. Anzi: “Quando verrà l’ora / sarà bello aggiungere una croce”. Rivolto alle “misteriose ombre / della sera”, egli prega: “calatemi in un tempo senza sfere” E, pensando all’ora fatale del trapasso, si augura di “dormire, come rondine,
/ col pileo sotto l’ala, / dopo i voli del giorno / e non patire angoscia / pensando al viaggio di ritorno”.
Forse i versi più belli di Pellecchia sono quelli d’amore per la moglie. A lei canta, elegiaco: “La natura ti minia / di petali a colori”. A lei ricorda, tenero, le gravidanze: “La tua fecondità / rotonda / la reggevi / come un fascio / di fiori”. A lei, devoto, riconosce l’amore peculiare per i figli: “Sempre nel cuore / li hai gelosamente / pulsati questi figli, / gioiosa vena / nel sapore / dolce amaro / della vita”. A lei dona il suo metro di distanza fra il loro amore e quello di altri esseri: “Il nostro mondo / per loro / è un’isola lontana”. A lei (ora che “avvampano i falò degli anni / e i confusi timori dell’alba”) ricorda l’esistenza in comune come “due vele leggere”, “sino alla fine sposi”. A lei offre l’eterno mito della memoria: “Non rapirà la terra la tua fede, / gli sguardi, le parole, ogni pensiero / fioriti nell’essenza della vita”. Infine a lei, sereno, “urla” sommesso: “Lasciamo agli altri le ragioni d’oggi / seduti sulla riva opposta […] / alte eleveremo / le nostre braccia ad accogliere / il nuovo
tempo che verrà dal cielo”. Parlando della propria poesia nella prefazione a Gran parte di noi, Pellecchia scrive che il suo linguaggio “non risente della impazienza del nuovo né è legato a tendenze generazionali”. Sostanzialmente ha ragione. Anche se, forse inconsapevolmente, la sua “musa d’emergenza” ha anch’essa subìto (come quella di gran parte dei poeti d’oggi) l’influenza di Eugenio Montale, giocata com’è tra dolcezze foniche ed elegia, paesaggio fisico e metafisica, male di vivere e consolazione, discorsività e dissonanze, allusioni e vocazione al frammento.
Direi che di Montale il poeta Pellecchia ha saputo soprattutto osservare il famoso precetto: “Che il poeta canti ciò che unisce l’uomo agli altri uomini, ma non neghi ciò che lo disunisce e lo rende unico e irripetibile”. È certamente da qui che nasce l’unicità dei suoi versi, scritti in tarda età “come un gioco”.
( La Rassegna d’Ischia, n. 6, Anno 1993 )
2.
Dopo le belle prove delle precedenti raccolte, La vita che pareva(D&P Editori, 2006, lire 10.000) consacra Anselmo Pellecchia poeta di elevato spessore. Dall’alto dei 91 anni di vita e di esperienze il lirico bolognese (nato a Piacenza da genitori campani) raccoglie in quest’ultimo libro tutti i temi della sua ispirazione poetica, in un vibrante flusso di memoria che mescola tempo e dolore, pensiero e vita, amore e rimembranza, infinito e finito.
Il tempo di Pellecchia scolora piano i colori, mescola amaro e dolce, scivola affondando i pensieri, disperde sogni e illusioni, porta con sé via tutto come il vento le foglie. Il poeta è simile a un alto monte, a una “vagante nuvola” da cui medita sull’esistenza. La vita – egli dice – va vissuta come se il giorno fosse l’ultimo o il primo. L’esistenza e la morte sono come un teatro. La vita stessa è in prestito (come lo è la memoria) e occorre che venga spesa come ragione d’essere, vivida epifania, festoso incontro, testimonianza. Vivere è dare un senso al tempo, il senso dell’amore. È sentire se stessi come sogni sognati e poi rimossi. È accogliere l’amore come se fosse un mito.
L’amore e la memoria occupano i maggiori temi del libro. Il poeta rievoca sua madre, la moglie Wanda, l’amica Teresa scomparsa di recente. L’amore gli appare come il sole di un’alba, luce, canto, musica lieve, incanto, mondo nuovo, ricamo del cuore a filo a filo. È un amore della memoria, di doloroso rimpianto. La morte ha condotto con sé le amate del poeta al “porto da cui non si ritorna”, facendo fiorire nel suo cuore fasciato d’ombra nuovi rovi. Per lui è come aver visto una stella da cui la notte fonda lo separa, aver visto sparire una rondine senza un addio. Gli resta solo l’attesa di “mettere un bavaglio a questa vita”.
Pellecchia tuttavia coglie la lezione di Schopenhauer (“La morte è come il tramonto del sole, che scompare per riapparire altrove in un altro luogo”). Infatti sogna gli occhi di colei che è scomparsa riaprirsi “come corolle a maggio”, la invita a ritornare alla vita “come farfalla tremula”, ne ritrova la luce nel primo autunno dalla veste d’oro, infine sa che – spenta una stella – nel firmamento se ne accende un’altra.
Meditando sul tema della morte, la mente del poeta avverte anche l’immenso spazio dell’infinito e dell’inconoscibile. E le ultime poesie (prima della Postilla di commiato) esprimono il travaglio dell’uomo che si interroga sul mistero e sul sacro. Dio – dice inquieto Pellecchia – è ciò che agli altri non tramandò il primo Scriba: è il mistero di uomini divisi, fratricidi e confusi; l’Onnipotente che ha scavato il solco dei privilegi e della malasorte. E così, in luogo della salvezza (“salvi da chi?”), Pellecchia auspica che nuove lacrime, divine-umane, fecondino la Terra di armonia, di speranza e di pace: “per sempre amare”.
( Introduzione al libro, D&P Editori, 2006 )
VINCENZO CUTOLO