Presentare un libro è sempre un’operazione ricca di fascino, per il naturale confronto fra la propria cultura, sensibilità, visione del mondo, e quella di chi ha dato il testo alle stampe. Nel caso di un libro di poesia, narrativa o teatro, il confronto è col singolo poeta o scrittore, creatore di immagini o personaggi. Nel caso di un saggio critico su uno scrittore, il confronto è più ricco: il rapporto è non solo con l’autore del saggio, ma anche con lo scrittore su cui il critico ha ragionato.
Il libro di Antonio Borriello Samuel Beckett, Krapp’s last tape, dalla pagina alla messinscena (ed. Esi, Napoli, pag. 225, lire 35.000) contiene – per chi lo presenta – un ulteriore elemento di fascino, giacché il confronto non è solo con l’autore Beckett ed il giovane critico, ma con loro e contemporaneamente con un “terzo” soggetto: lo stesso Borriello, attore-regista che ha messo in scena il breve testo di Beckett fin dal 1981.
Già nell’Introduzione (preceduta da una “angelica” prefazione di Biagio Scognamiglio) Borriello definisce la peculiarità del “capolavoro in miniatura” di Beckett, all’interno dell’intera produzione dello scrittore irlandese: “monologo del monologo nel monologo”; assolo a due voci (una umana, l’altra meccanica); testo in cui il personaggio, in continuo sdoppiamento, è travolto da vari microcosmi anagrafici, in un processo costante di moltiplicazioni, sovrapposizioni, incastri di io e non-io (oppure, come in un antico No giapponese, contemporaneamente Shite e Waki, protagonista e deuteragonista); infine l’immagine più disperata delle angosce di Samuel Beckett.
Il libro è poi diviso in due parti: Il testo drammaturgico e Il testo scenico. La prima parte è a sua volta suddivisa in Il personaggio e la personalità matura e I riferimenti numerici.
Nel capitolo sul personaggio, Borriello ricerca di Krapp le origini culturali (commedia dell’arte, circo, fool shakespeariano, varietà, music-hall, cinema muto) e la particolare natura – comune anche ad altre creature di Beckett – di intellettuale clochard, di “clown letterato”. Quindi investiga il personaggio attraverso la tecnica della “candid camera”, passando dalla tana (freudiano “grembo materno”) all’oscurità (metafora dell’isolamento–-oblio), all’ “equilibrio effimero” del registratore e della bobina, infine all’impossibilità di comunicare.
Nel capitolo sui riferimenti numerici, Borriello coglie dei numeri il valore profondamente esoterico e ricorda la predilezione di Beckett per il 3 e i suoi multipli: in L’ultimo nastro di Krapp vi sono – fra gli altri – i riferimenti a sei rievocazioni di donne, a tre racconti, a tre oggetti estratti dalle tasche tre volte, alla parola “bobina” allungata con tre i, a tre avvii del registratore per riascoltare la scena d’amore sul lago.
La seconda parte del libro è più “tecnica”: vi si parla della “scrittura di scena”, di “gesto e mimica”, dei “bozzetti” (disegnati dallo stesso Borriello: scena, trucco, costume), degli “oggetti”. Qui l’attore-regista fa i conti con le “regole” severamente imposte da Beckett ed illustra analiticamente il proprio modo di trasporre in spettacolo L’ultimo nastro di Krapp. Apprendiamo così che egli non “invecchia” il suo viso da Krapp; combina gesti lenti con scatti da marionetta; fa diventare un sol blocco il suo corpo, il registratore ed il tavolo; ha una “maschera” che sa esprimere emozioni–espressioni fino alla “morte della partecipazione”.
Il suo Krapp “comunica” con il linguaggio dei segni, ma quando parla – da giovane, in nastro – ha una voce netta, forte, solenne (che da “vecchio”, in scena, è stridula ed ha timbro di gola). Ed ancora: nello spazio “informale” (che rimanda a Fontana, Burri, Pollock, Segal, Tapiès) la pantomima del Krapp di Borriello è animata da musiche di Hindemith, Cage, Stockhausen, Nino Rota; la “tana” ha la forma di un semicilindro, chiusa e aperta da un velo nero.
Nel libro (che è prezioso anche per la ricchissima bibliografia) Borriello confessa che per interpretare L’ultimo nastro di Krapp ha dovuto “purgarsi” di tutte le tecniche stanislavskijane, artaudiane, brechtiane, rispettando minuziosamente le indicazioni di Beckett. Il fatto si comprende ampiamente. E occorre aggiungere che tale scelta Borriello non l’ha operata in modo meccanico e acritico: lo spettacolo da lui allestito (il libro lo fa intendere bene) ha restituito del teatro di Beckett l’intera profonda essenza. Borriello è chiaro, ad esempio, nel rifiutare la superficialità di certi approcci a Beckett: per tutti, il Krapp messo in scena da Klaus M. Grüber con l’attore Minetti o le “stupide opinioni” di Jannacci su Aspettando Godot. Ad avvalorare serietà e passione della ricerca, Borriello illumina con acume i fondamentali temi del teatro di Beckett (individuandone affinità e scambi con altri grandi della cultura moderna e contemporanea): precarietà della vita umana, nichilismo, pessimismo, ricerca del “grembo materno”, “mito di Sisifo”, gioco liberatorio (che rimandano a Proust, Kafka, Dostojevskij, Leopardi, Freud, Camus, Huizinga) Tuttavia nella disperazione esistenziale dello scrittore irlandese, nell’amara tristezza che proviene ai suoi personaggi dal continuo “ri-vivere” il proprio passato (negato e poi reincontrato nella memoria), il libro di Borriello ritrova anche il forte accento della speranza; che, nel caso di Krapp, è l’affannosa e reiterata ricerca dell’amore come “assoluto” (la passeggiata in barca sul lago, insieme a una donna nel silenzio notturno, fa dire all’uomo estasiato che “la terra potrebbe anche essere disabitata”).
( Il Carattere, dicembre 1994 )
VINCENZO CUTOLO