Se mi volgo indietro, ora che il mio servizio di ruolo è giunto al termine, mi accorgo che la mia vita è interamente trascorsa dentro la scuola: asilo, elementari, medie, ginnasio-liceo, università; e poi subito l’insegnamento (Tedesco e Lettere, in Basilicata e in Campania, per ventidue anni); quindi la dirigenza scolastica, per altri ventidue anni (Milano, Torre Annunziata, Zurigo, infine ancora Milano).
Ricordo i miei cari insegnanti, quelli che hanno lasciato in me un maggiore segno: una suora, i maestri “plagosi” delle elementari, i docenti di Lettere e di Filosofia del liceo, i professori universitari Francesco Arnaldi, Italo Maione e Salvatore Battaglia.
Ricordo i numerosi colleghi: insegnanti che agli allievi donavano non solo cultura, ma anche la ricca umanità dell’esperienza di vita; donne e uomini di varia estrazione, disponibili al civile confronto e al bene dei ragazzi.
Ricordo i colleghi presidi e gli ispettori: categoria sociale caratterizzata dall’onestà, dal rispetto delle leggi e dall’attenta cura del promuovere e coordinare.
Ricordo soprattutto gli alunni: quelli della regione Basilicata, figli di contadini, pastori, artigiani (spesso affidati ai nonni da genitori emigrati nei Paesi europei); quelli campani, a metà strada fra civiltà contadina e civiltà urbana industriale e post-industriale; quelli milanesi, di buona borghesia ma anche di proletariato urbano della periferia; quelli dell’emigrazione italiana in Svizzera, piccoli “cittadini del mondo” cui il nostro Stato conserva le radici con i corsi di lingua e cultura italiana; infine quelli immigrati da Paesi lontani, che la nostra scuola contribuisce a integrare tra difficoltà varie di cultura e di lingua.
La mia vita è trascorsa, se ci ripenso, fra migliaia e migliaia di volti adolescenti. Volti che, a chi lavora nell’istituzione scolastica, donano una giovinezza perenne, un ininterrotto contatto con gusti, mode, culture di una società sempre mutevole come la lingua.
Di tanti volti ne ricordo molti, ma uno in particolare: quello di un ragazzo bruno di Torre Annunziata, figlio di povera gente. Era l´anno 1993 ed io convocai suo padre poiché egli non frequentava la scuola da molti giorni. L´uomo mi disse che il figlio “gli serviva”: per la vendita delle sigarette di contrabbando, dalla mattina alla sera, davanti al casello dell’autostrada. Gli feci notare che ero costretto a denunciarlo, giacché egli impediva al figlio di usufruire del diritto allo studio garantito dalla Costituzione. Replicò che, se lo avessi denunciato, mi avrebbe sparato alle gambe.
Allora, per convincerlo, gli parlai del mio percorso di vita: che ero figlio di un ferroviere e di una casalinga, che dei quattro figli mio padre aveva potuto far studiare soltanto i due maschi, che mi ero laureato con grandi sacrifici, che avevo fatto l´insegnante e che ora ero addirittura dirigente scolastico. Gli feci capire che la scuola della Repubblica offre a tutti, indistintamente, la possibilità di cambiare, di migliorare la propria vita; e che essa dona ai giovani la cultura, l’autonomia di pensiero, la libertà. Mi riuscì di convincerlo, con fatica. E suo figlio ritornò a frequentare la scuola. Dopo le medie, il ragazzo si iscrisse al liceo scientifico.
In questi anni, quando da Zurigo o da Milano sono ritornato in Campania, ho spesso chiesto di lui. Mi hanno detto che è diventato ingegnere. E che è un buon cittadino.
(“La Voce della Scuola”, 2008)